BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Novant’anni di Fidel

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E’ presto impallidito e poi attraverso il fallimento delle imprese più audaci svanito del tutto, quel cielo rosso-fuoco che allo scoccare degli anni Cinquanta accoglieva all’Avana i comandanti della Rivoluzione: per primo Camilo, il più bello e amato dalle donne; seguito dagli occhi aquilini del Che, due lanterne magiche sotto il basco tirato di traverso su un orecchio; infine lui, profilo classico di una divinità greca, distante da tutti anche nell’ora suprema del trionfo. Un Cesare del Caribe? Si -rispondono più d’uno di quelli che l’hanno conosciuto-, nel senso che Fidel ha vissuto Cuba come una Roma la cui plebe è diventata popolo grazie all’epopea della guerriglia dalla Sierra Maestra alle città.
Io ho soggiornato in varie occasioni a Cuba, negli ultimi 4 decenni. Di cubani ne ho incontrati molti, da semplici funzionari addetti ad accompagnare i giornalisti stranieri in visita a scrittori e artisti famosi come Miguel Barnet e Renè Portocarrero, un po’ isolati dal regime; fino al sommo poeta e squisito gourmet Nicolás Guillen (autore in prima persona del ricercato menù del ristorante dell’Unione Scrittori, di cui era il Presidente grazie ai grandi meriti letterari e a una certa duttilità di carattere verso il potere). Qualche sguardo sono arrivato a darlo anche a quella “Cuba catacombale”, nascosta e perseguitata, di cui ha pericolosamente scritto Heberto Padilla, intellettuale rivoluzionario, poi deluso ed esule, mai rassegnato.

Il ricordo più vivo è per il giornalista, poeta coloquialista e amico Raul Rivero. L’avevo conosciuto a Mosca nella seconda metà dei Settanta, corrispondente dell’agenzia di notizie cubana Prensa Latina. Aveva letto Leopardi e Calvino, era ironico, estroverso: risultava simpatico a tutti nelle serate che finivano sul tardi. Agli agenti dei servizi sovietici che ci sorvegliavano tutti piaceva meno e neppure la burocrazia di casa sua ne aveva una grande opinione. Per sopravvivere, al ritorno all’Avana era diventato un po’ criptico. Quando l’ho rivisto mi parlava di Anglaura, delle Città invisibili quella che “imprigiona le parole e ti costringe a ripetere invece che a dire…”. Ho saputo dopo molto tempo che era finito in carcere. Malato, l’hanno infine liberato ed è potuto emigrare negli Stati Uniti.

Non sono mai stato un cieco innamorato della islita, come viene chiamata nel gergo dei proseliti. Neppure pregiudizialmente contrario. Il protagonismo smisurato rispetto alle sue dimensioni, l’indomita sfida alla storia e alla geografia, vanno ben oltre la semplice propaganda di regime. Né appaiono riducibili a luciferine ambizioni personali. Nella profonda arretratezza della regione, la militarizzazione del progetto di sviluppo accelerato e indipendente era tanto inevitabile quanto esposto alla sua perversione. La rinuncia alla libertà non ha riscattato la giustizia. In un mondo sempre più secolarizzato, l’etica del sacrificio santificata dal Che ne ha sostenuto per un periodo lo sforzo, ha portato i cubani a superarsi nell’educazione e nell’organizzazione sociale, non è riuscita a essere una strategia di salvezza.

Forse anche per aver espresso queste osservazioni una vera e propria intervista con Fidel non l’ho mai ottenuta. A Cuba, ho potuto tuttavia scambiare qualche parola con lui in due circostanze: una all’Avana, nel corso di un match di boxe in cui mi avevano fatto sedere quasi accanto a lui; l’altra in occasione del trentesimo anniversario della Rivoluzione, a Santiago. La terza e ultima è stata a Buenos Aires, una decina d’anni addietro, poco prima di uno dei suoi ultimi discorsi-fiume. Cominciato alle 7 di sera nell’Aula Magna della facoltà di Giurisprudenza e terminato tre ore dopo sulla sua monumentale scalinata neo-classica affacciata all’avenida Figueroa Alcorta, bloccata senza preavviso all’intenso traffico completamente impazzito e nondimeno dopo un’iniziale gazzarra di clacson del tutto ammutolito. La folla di ragazzi riuniti si era via-via gonfiata fino a straripare sull’ampio vialone. E Fidel non si era lasciato sfuggire l’occasione di ravvivare il mito che lo circonda, lanciando un appello evangelico ai giovani del mondo intero:”Andate, conquistate la vita e condividetela con tutti…”.

Al pugilato, che irresistibilmente lo appassiona per il suo miscuglio di noble art e machismo, non fu possibile parlare d’altro. Appreso che ero italiano (in un primo momento aveva creduto che venissi dagli Stati Uniti, perché il privilegio di poterlo avvicinare era di solito riservato ai colleghi americani), ricordò di aver ascoltato da giovane alla radio la cronaca dello scontro furibondo tra Tiberio Mitri e Jack La Motta per il titolo mondiale dei medi (che praticamente mise fine alla carriera del meraviglioso schermitore triestino): ”Muy valiente tu compatriota, el chico tenía un jab-relampago con la izquierda…pero el yanqui era un extraordinario hombre de combate, no hubo caso…”. Si mise in piedi di slancio sul suo metro e novanta, mi salutò già rivolto pubblico che l’applaudiva dalle gradinate e raggiunse la guardia del corpo.

A Santiago il clima era di festa, discorsi ufficiali da vari balconi, bibite fresche e gente nelle strade. Eravamo mezza dozzina di giornalisti stranieri, a Fidel potevamo porre una sola domanda ciascuno. Il tempo era limitato. Con il collega brasiliano Walter Sosa concordammo di fargli entrambi la stessa, uno dopo l’altro:”Per quest’anniversario verrà concessa un’amnistia ai detenuti politici?”. Pensavamo che gli sarebbe stato più difficile eluderla. “I traditori della Rivoluzione condannati dalla Giustizia non devono scontare tutti le stesse pene, a decidere se qualcuno merita un perdono è il governo, non io personalmente”, rispose a Walter che l’interrogò per primo. E quando subito dopo io gliela riproposi tale e quale, disse solo:” Ho già risposto”.

Nelle diverse situazioni e a distanza di tempo una dall’ altra, ho avuto modo di osservare i modi di fare del leader cubano, certi suoi cambi di umore. In qualche caso mi è sembrato di cogliere anche i motivi che potevano ispirarli. Fidel è una persona che ama essere persuasiva. Ma può diventare imperiosa, pur nel rispetto delle forme e mantenendo il controllo di parole e tono di voce. Nell’ Aula Magna di Giurisprudenza a Buenos Aires, di fronte all’effervescente folla degli studenti, ai cori che inneggiavano al suo nome, alla confusione e alle perplessità degli organizzatori, decise da solo di uscire in strada. Tranquillizzando gli agenti della propria sicurezza e quelli della polizia argentina, oltre che il decano della facoltà, senza gesti bruschi nè un’incrinatura della voce sottile.

Queste conoscenze dirette e altre che nel tempo ho ricevuto da persone per lo più cubane che mi hanno riferito le loro esperienze con un personaggio tanto eccezionale quanto controverso, ma che indiscutibilmente lascia il proprio segno nella storia contemporanea, sono lo sfondo della fiction che segue e con cui ricordiamo il suo novantesimo compleanno. Come ha scritto il più celebre inviato del New Yorker, Abbot J. Liebling, corrispondente di guerra (sbarcò con le prime truppe statunitensi in Normandia) e studioso dei sistemi d’informazione: il giornalismo fa la cronaca dei fatti di cui è testimone, la fiction ci scava dentro per cercarvi le spiegazioni che possano soddisfare la nostra necessità di senso.


LA MEMORIA DI FIDEL

Il mattino era particolarmente nebbioso. Filtrata da palme, magnolie e buganvillee, l’umidità sospesa sull’ Avana alta racchiudeva la cittadella governativa in un velo d’ organza, dal palazzo della Rivoluzione all’ ibrida torre tra costruttivista e azteca che qualche centinaio di metri più avanti rendeva onore a José Martí. Le notizie riservate appena lette parlavano delle centinaia di profughi in fuga disperata dalle perenni penurie cubane, lungo il corridoio centro-americano verso gli Stati Uniti. Hillary Clinton aveva confidato a un testimone attendibile che una volta entrata alla Casa Bianca non avrebbe revocato le aperture di Obama.

All’uscita da quello che era rimasto il suo ufficio, sebbene ormai da molti anni lo frequentasse raramente, lo sguardo lievemente appannato dallo sforzo compiuto sulle carte di Stato, l’enorme spazio deserto apriva a Fidel lo scenario di un monumentale anfiteatro della memoria. Respirò a fondo l’aria già tiepida anche nella speranza di liberarsi dell’acidità che sentiva in bocca e contemporaneamente levò in alto le braccia che distese in un piacevole sforzo. Ne ebbe un sollievo immediato lungo la schiena, al medesimo tempo che il gesto gli replicava nella mente le mille volte in cui se ne era servito d’ incitamento e saluto.

Le folle a cui saluti e incitamenti erano stati diretti, riunite proprio qui per le celebrazioni consacrate dalla Rivoluzione, dormivano adesso tra rassegnate e scontente nelle loro case. Il Comandante supremo espresse il desiderio di trattenersi qualche minuto in solitudine. Congedò senza alcuna formalità il segretario, del quale vedendolo allontanarsi pensò che avrebbe dovuto cambiare parrucchiere. Quel taglio che gli lasciava scoperta di netto metà della nuca evocava un annuncio di decapitazione.

Il non più giovane Carlos Gabriel andò ad aspettarlo seduto nella nera Mercedes 4×4 corazzata. Dallo specchietto retrovisore osservò per un pò i movimenti degli uomini della Seguridad. Presto fu raggiunto dall’infermiere dello speciale reparto della Sanità militare che era con loro fin dalla sera precedente. Vide Fidel tornare a passi strascicati verso la scalinata, aiutandosi con il bastone da cui al mettersi in piedi ormai non si separava mai. Poi cadde addormentato.

Echi dei discorsi di Fidel risuonavano ancora in alcuni angoli marmorei della piazza-mausoleo. Tornavano nitidi alle orecchie del Comandante Supremo mettendogli a fuoco alcuni dei volti ancora presenti quando li aveva pronunciati. Ai giovani che non li avevano mai visti, dovevano ricordare gli eroi che non c’ erano più. Ernesto Guevara, muy querida presencia, ritratto in vitreo profilo contro lo squallido edificio del ministero degli Interni, illuminato dall’ irriducibile addio posto in epigrafe: Hasta la victoria, siempre. Camilo Cienfuegos, perduto nel naufragio del suo impavido ottimismo e dell’aereo Cessna 310 delle Forze Armate Rivoluzionarie a bordo del quale attraversava l’oscurato cielo orientale dell’isola e le prime, violente turbolenze del potere rivoluzionario.

Poco a poco, uno alla volta, nella mente di Fidel sfilarono anche gli innominabili (Huber Matos, Anibal Escalante, Osvaldo Dortícos, Carlos Franqui, Haydée Santamaría, Jorge Manuel Salas…), perchè traditori o traditi. Lui riteneva di aver combattuto la sua battaglia: quale rivoluzione non aveva finito per divorare dei figli?  E’ nella dialettica degli interessi di classe. Ci si erano già scannati Sartre e Camus nell’ Europa dei socialismi contrapposti, quando il secondo dei due aveva scritto che la rivoluzione può diventare autodistruzione criminale; mentre a Mosca Stalin sembrava eterno, all’ Avana il riformista Eduardo Chibás, disperato, si sparava una pistolettata e lui (che avrebbe parteggiato per Sartre senza essere esistenzialista) cominciava a pensare a un gesto clamoroso: assaltare la caserma Moncada?  Chi tutto ciò doveva saperlo, lo sapeva.

Non che Fidel fosse ipocrita a tal punto da negare l’esistenza di conflitti scaturiti dallo scontro di ambizioni personali. Ma qualcuno poteva forse dire di averlo visto accendere un solo rogo per pure dispute di potere? La lotta politica non aveva nulla di angelico e comunque la sua avveniva ben dopo la caduta degli angeli. A Cuba Girondini e Termidoro non avevano trovato spazio, Carlotta Corday era stata posta in condizione di non nuocere, al muro sul quale erano stati massacrati i comunardi parigini questa volta erano finiti invece i Thiers e i Mc Mahon.

Non perciò egli sentiva di poter essere avvicinato a Carranza o a Stalin, pretendeva di non aver nulla a che vedere né con il messicano né con il georgiano. La loro ferocia gli era estranea. Non era spinto da nessun fanatismo, non praticava alcun terrore. Tuttavia ai traditori non poteva non attenderli il castigo più duro, ai ritardatari l’ emarginazione, agli impazienti l’ esilio. Poteva essere diversamente per una rivoluzione decisa a non suicidarsi?

Aveva sbagliato? Certo, errori ne aveva commessi. Restava tuttavia convinto che la storia lo avrebbe assolto. Sebbene pensasse che certi storici lo giudicavano in base a un’istruttoria in cui i pregiudizi deformavano i fatti. Il Che lui lo aveva amato come un fratello. Vero che le loro valutazioni politiche non sempre avevano coinciso, ma agli interrogativi sul suo martirio in nessun momento aveva pensato di rispondere che egli non era il custode di suo fratello…

Per quel fratello Fidel aveva concepito ammirazione e affetto, chi poteva dubitarne, quali argomenti l’avrebbero potuto smentire? La sua epopea africana era stata formulata e pianificata a Cuba, la rivoluzione vi aveva profuso tutte le energie possibili. D’ altra parte non mancavano testimoni di aperti dissensi e scontri irrimediabili. Il carattere di Guevara era franco, talvolta guascone. Sulla situazione sudamericana le loro valutazioni erano risultate in qualche caso diametralmente opposte. Guevara riteneva di vedere possibilità che egli invece negava. Diversi erano i punti di vista iniziali, i ruoli, l’idea medesima di rivoluzione.

In Bolivia tutto era andato troppo in fretta, il Che non era più giovane e l’asma l’assaliva con sempre maggiore frequenza a soffocargli il respiro. La guerriglia aveva arruolato più intellettuali che soldati, più esegeti che seguaci. I sovietici non avevano osato critiche aperte e men che meno interventi occulti sul governo dell’Avana. Era disposto a giurarlo di fronte a chiunque. Non poteva fare altrettanto per il Komitet Gosudarstviennij Bezopasnost, che come tutti i servizi segreti aveva settori che agivano talvolta anche all’ insaputa del governo. Quelli del KGB avevano ciascuno i propri protettori nell’ Ufficio Politico e nel Comitato Centrale del partito e certe volte facevano politica in proprio.

Comunque, Guevara stesso conosceva meglio di chiunque altro la logica di Yalta, la spartizione del mondo post-seconda guerra mondiale tra le superpotenze e i rischi di puntare a metterle di fronte a un fatto compiuto. Quale sprovveduto o quale mangiamerda poteva dubitare che tutto ciò fosse stato discusso interi giorni e intere notti, con parole dure, talvolta irrevocabili, attraverso confronti appassionati, contrasti irrisolti, fino all’ esaurimento?

La vittoria contro Batista non aveva ancora compiuto un anno, quando Fidel dovette presentarsi sui teleschermi per annunciare la morte di Camilo Cienfuegos, il comandante più amato, in quel momento capo di stato maggiore dell’esercito. Disse che il piccolo aereo sul quale viaggiava con un assistente e il pilota era scomparso mentre volava da Camaguey all’ Avana. L’ esercito guerrigliero perdeva il volto dell’allegria, la voglia di ballare con il fucile a spalla, il sorriso del carnevale; il popolo l’ indomito combattente cresciuto nelle sue strade; le ragazze un amante giocosamente incantatore.

Non ignorava i sospetti accesi dalla sciagura; non ancora interamente sfumati neppure dopo mezzo secolo: se ne poteva fare un rimprovero?  Sospetti ancor più atroci erano stati fatti cadere su Osmani Cienfuegos, il fratello di Camilo nominato ministro dei Lavori Pubblici all’indomani della sua morte. Camilo era social-cristiano, l’unico in una famiglia tutta militante comunista e il solo a essersi unito alla guerriglia di Fidel sulla Sierra Maestra. In quei tempi il partito comunista cubano non concedeva alcun credito alla lotta armata, anzi la condannava senz’ appello. Il punto, secondo taluni, era infatti questo: Osmani sarebbe stato cooptato nel gruppo di potere per trasfigurare la immensa popolarità di un Cienfuegos moderato nell’ ortodossia estrema del Cienfuegos bolscevico.

Non era la prima volta che a Fidel venivano questi pensieri. Ma negli ultimi tempi, con la morte che non dissimulava di stargli ormai alle calcagna, gli tornavano con maggiore frequenza. Forse per un’involontaria sintonia con l’accresciuta inquietudine dell’isola, sottoposta a una vigilia di cambiamenti di cui nessuno osava immaginare l’esito ultimo. Immacolata era rimasta solo la memoria dei Juan Antonio Mella, Abel Santamaría, José Antonio Echeverría, Frank Pais: dei martiri che non erano giunti a contaminarsi col potere… Ma lui aveva sempre saputo dell’inevitabilità di sporcarsi le mani: la coscienza candida era un mito dell’ipocrisia borghese.

E’ vero -ammetteva con se stesso, dopo averlo fatto già in passato con qualche intimo-, aveva perfino applaudito ai carrarmati del Patto di Varsavia che nel 1968 schiacciavano sotto i loro cingoli la primavera di Praga. Poi, però, disfatta l’Unione Sovietica, quell’ansia riformatrice amplificata dalla voce di Alexander Dubcek si era dissolta quasi senza lasciare residui. I popoli dell’Europa centrale se n’erano dimenticati. Coniugare libertà e socialismo è rimasto anche a Cuba un desiderio chiuso nei cassetti segreti del partito unico, come negarlo?

Ora c’è la novità storica di Obama che riconosce il diritto all’esistenza di Cuba, alle sue indipendenza e sovranità, senza riuscire però a spazzare via el maldito bloqueo… L’economia non decolla. Anzi, la crisi venezuelana moltiplica le nostre difficoltà. Anche per questo Raul non riesce a fare meglio di me nella politica verso i dissidenti, i generali hanno paura a spalancare le porte delle carceri ai detenuti per attività politiche illegali. E se questi escono, fanno tutt’insieme un altro partito e con il denaro in arrivo da Miami vincono le elezioni, Cuba diverrebbe con ciò più democratica?

Solo con sé stesso, inebriato dalla salsedine ossigenata spinta su dal vento che infrange le onde sul Malecon e nell’istante successivo smarrito nel suo potere che è grande e nondimeno limitato dagli anni e dalla malattia a quello di massimo suggeritore, Fidel non abdica comunque al principio di autorità. Ne considera anzi il carattere irrevocabile, che fa dell’ordine un sentimento più radicato della forza di persuasione, in quanto precedente al linguaggio (“altrimenti i cani non potrebbero riconoscerlo”, dice Elias Canetti in “Massa e Potere”). Al fratello che lo sostituisce, ai generali che lo consultano, ai visitatori stranieri che riceve, non si stanca di ripetere:”Siamo sempre disponibili a negoziare, ma non dobbiamo avere fretta…”.


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