“Questa città o farà chiarezza o non riuscirà a liberarsi dalle fauci della ‘ndrangheta. Noi stiamo facendo la nostra parte”. Queste le parole pronunciate dal Procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho in conferenza stampa il 12 luglio scorso dopo l’operazione Reghion. Dieci le persone fermate, tra gli altri dirigenti e funzionari pubblici. L’inchiesta è in ordine temporale il secondo atto di quella che appare un’azione della Procura, articolata in più fasi, contro la ‘ndrangheta. Non la ‘ndrangheta delle “ndrine” e dei “locali”, ma a quella della cosiddetta Cupola, della Mamma Santissima, direzione strategica che salda e va oltre interessi politici, di massoneria, affari strettamente criminali dei clan, ed è di casa nelle sedi di partiti e nelle segreterie politiche, dentro studi legali, nelle abitazioni e negli uffici di ex alti magistrati – di qua e di la dallo Stretto – e conta sulla disponibilità anche di giornalisti.
L’operazione Reghion segue l’operazione Fata Morgana, che il 9 maggio aveva segnato il primo atto dell’azione della Procura e che subito aveva puntato sulle attività dell’avvocato ed ex deputato Psdi Paolo Romeo, già condannato anni addietro per concorso esterno all’associazione mafiosa a su una associazione segreta che secondo i magistrati condizionava l’attività della politica delle amministrazioni locali e l’economia dell’area. A luglio arrivano altre due operazioni denominate Mamma Santissima e Alchemia: negli atti delle due inchieste compare in posizione centrale -insieme a quello di Paolo Romeo- il nome di Giorgio De Stefano, politico e avvocato, esponente della storica famiglia mafiosa reggina e parlamentare come Antonio Stefano Caridi, per cui viene chiesta e ottenuta dal Senato l’autorizzazione all’arresto, e quello di Giuseppe Galati, per cui il gip nega il provvedimento. Ma gli atti delle quattro inchieste sono zeppi di nomi di politici non solo calabresi (come l’ex senatore di An, Domenico Kappler commissario di Fratelli d’Italia in Calabria, ex amministratore delegato di Risorse per Roma – società partecipata da Roma Capitale) raggiunti da provvedimenti dei magistrati, indagati o tirati in ballo per varie ragioni. Si parla anche di giornalisti .Ad esempio, una parte dell’inchiesta Reghion è dedicata anche all’attività svolta dalla giornalista Teresa Munari e dall’avvocato Paolo Romeo -che tutti a Reggio sanno essere stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Attività, questa, volta a fornire appoggio mediatico ad un personaggio coinvolto nell’indagine e legato a filo doppio allo stesso Romeo, e cioè Marcello Cammera, onnipotente dirigente del Comune di Reggio per anni a capo dei lavori pubblici del Comune. Cammera era stato sostenuto con articoli e servizi quando rischiava di essere sollevato dall’incarico di dirigente del settore servizi tecnici.
Nel decreto della Procura di Reggio eseguito dai carabinieri il 12 luglio si legge: “La capacità di influenzare l’opinione pubblica, infatti, passava anche per la capacità d’infiltrazione anche nel mondo giornalistico, non solo per i diretti servigi che, come si andrà ad esporre, la Munari aveva reso, ma anche per la sua capacità d’influenzare ed orientare l’operato di altri inconsapevoli giornalisti, in funzione delle strategie progettate da Paolo Romeo. La rilevanza di siffatti strumenti mediatici, al fine di condizionare anche le scelte della Pubblica Amministrazione è stata, concretamente, accertata, allorché la posizione di Marcello Cammera è stata vagliata dalla Commissione Parlamentare Antimafia….”.
Una storia documentata da intercettazioni riscontri e testimonianze di cui si torna a parlare anche negli atti dell’inchiesta Mamma Santissima. Ora gli aggettivi appaiono inutili. Fatto comunque salvo il diritto di ognuno di protestare e, se può, di dimostrare la propria estraneità alla vicenda. Quello che non pare inutile è sottolineare che queste vicende vengono segnalate in una regione, la Calabria, dove sarebbero accaduti episodi di questo genere ma dove ci sono anche giornalisti minacciati e sotto scorta per aver fatto in modo esemplare e fino in fondo il proprio lavoro.