Il lascito di Bernabei in vista della nuova Concessione

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Immaginare che Ettore Bernabei sia stato “soltanto” il più autorevole e geniale Direttore generale della Rai è oltremodo riduttivo. Bernabei è stato innanzitutto uno dei protagonisti della stagione politica più felice della Repubblica, quella che inizia con il primo centro-sinistra e si conclude con l’uccisione di Aldo Moro. La funzione che egli ha svolto nella Rai corrisponde, alla lettera, alla figura del nuovo intellettuale descritto da Gramsci: “costruttore e organizzatore, specialista+politico”.
Chi ha avuto la fortuna di leggere “L’uomo di fiducia”, un libro-intervista da molti anni malauguratamente fuori commercio, sa di che cosa parliamo.
I tratti con cui si delinea comunemente la “Rai di Bernabei” sono in realtà i meno rilevanti. La sua era certamente una televisione pedagogica (ma la Tv, potrebbe non esserlo?); dipendeva strettamente dal Governo (ma fatta eccezione per gli anni 75′-80′, la Rai non è sempre stata controllata dall’esecutivo?); tra i dipendenti si distinguevano solerti “funzionari con le forbici” (verissimo, tant’è che in alcuni casi si tagliavano non solo i fotogrammi ma anche le teste, e di questa usanza potrei dare due personali testimonianze); ma dai primi anni ’80, questa pratica non è forse stata eretta a sistema?).
Al di là dei luoghi comuni, tuttavia, quella Rai fu fortemente segnata dalla figura di Bernabei e dalla sua visione del mondo ispirata al pensiero di Fanfani e La Pira. Con un approccio degno di Carl Schmitt, Bernabei riconduceva lo scenario politico italiano ad un ambito che vedeva contrapposti l’Europa del Mediterraneo e l’Europa continentale, il capitalismo di Stato italiano e quello degli oligopoli internazionali, l’economia sociale di mercato e il liberismo individualista di matrice protestante. L’obiettivo era preservare la peculiarità del modello italiano di sviluppo dalle ingerenze politiche e culturali di altri paesi, compresi quelli occidentali.
È questo il panorama di politica internazionale che fa da sfondo al progetto organizzativo ed editoriale che Bernabei mette in atto nella Rai. Non che egli trascurasse la politica interna e i preminenti interessi elettorali e propagandistici della Dc, ma l’orizzonte che delineava la mission del servizio pubblico era quello, istituzionale, della politica estera (non a caso i corrispondenti della Rai erano stabilmente presenti in tutte le aree strategiche del pianeta).
Bernabei non ha bisogno di rivendicare piena autonomia dalla politica per la “sua” Rai: la sua competenza è tale che nessuno si sognerebbe di dirgli chi promuovere o che cosa fare. Piuttosto è vero il contrario.
L’indipendenza che gli sta a cuore è un’altra, quella della nazione, un’indipendenza evidentemente non ancora consolidata riguardo alle fonti dell’informazione e agli stili di vita veicolati dalle major dell’intrattenimento.
È stupefacente – ma dovrebbe far riflettere – che questa idea della “Tv di Stato” egli l’abbia con convinzione ribadita, a quarant’anni di distanza, un anno fa, intervenendo in un convegno organizzato dall’associazione dei dirigenti Rai (Adrai): “Oggi più che mai, il servizio pubblico dev’essere un vero e proprio baluardo a difesa degli Stati alle prese con il combinato disposto globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia. Alla Rai spetta un compito di vero e proprio servizio di sicurezza nazionale e comunicativa”. In pratica, ora come allora, natura e funzione del servizio pubblico devono essere definiti all’interno di un perimetro che va ben oltre la dimensione di una “media company”, azienda tra le aziende, governata da “specialisti non-politici”, costretta a competere, in assenza di una solida mission istituzionale, in un ambito esclusivamente commerciale dove i cittadini sono ridotti a merce da contare e vendere alle agenzie di pubblicità, soprattutto sui nuovi media interattivi.

Il parlamento e il Governo devono, nei prossimi due mesi, decidere il futuro della Rai assegnandole -contestualmente al rinnovo della Concessione – una mission chiara e distinta, all’altezza delle radicali istanze di rinnovamento imposte da una stagnazione ormai trentennale: una mission “forte”, coerente con la politica industriale del sistema-paese e rispettosa del dettato costituzionale a garanzia del pluralismo sociale e di una presenza non formale delle minoranze politiche nei vertici aziendali. In altre parole, una “grande Rai” che sia al tempo stesso impresa e istituzione.
Il nostro augurio è che il Parlamento, il Governo e i vertici aziendali sappiano fare un buon uso del lascito intellettuale e politico del più grande Direttore Generale “gramsciano” della Rai.


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