Un maestro del giornalismo, Federico Orlando, ci lasciava l’8 agosto di due anni fa. Lasciava noi di “Europa”, il piccolo ma ricco quotidiano prima della Margherita poi di area Pd diretto da Stefano Menichini che ha dovuto chiudere i battenti – esile vittima della crisi di vendite dei giornali – proprio pochi mesi dopo lo scomparsa di Federico, che ne era condirettore ma soprattutto l’anima colta, la memoria sapiente, l’inesauribile fonte di idee.
Orlando, come si sa, fu un giornalista straordinario. Per cultura. Per finezza intellettuale. Per curiosità. Per onestà. Depositario di un giornalismo antico ma mai polveroso, veniva da una lunghissima storia professionale, in tanti giornali, da ultimo la sua e montanelliana “Voce”, creata in antitesi al loro “Giornale” finito nelle mani bramose di Silvio Berlusconi: e Federico, liberale vero e non a chiacchiere, non avrebbe mai potuto seguire il Cavaliere nella sua arrampicata senza scrupoli al potere, e infatti non lo seguì.
Era stato il braccio destro di Montanelli, che – ci raccontava spesso– lo portava ogni giorno a pranzo, nella Milano primi anni Ottanta, “e pagava sempre lui, non c’era niente da fare”: ed è facile immaginare i loro discorsi sulla politica italiana ma forse anche – che so – su Ignazio Silone o Thomas Mann. Un’altra generazione, un’altra pasta, un’altra cultura.
Era un illuminista, Orlando, nel senso in cui Bobbio definiva la filosofia dei Lumi contro “l’oscurantismo, le filosofie tradizionali di ispirazione religiosa, il dogmatismo, in generale la cultura dei secoli che gli Illuministi chiamavano il “regno delle tenebre”. E l’antioscurantismo lo portò al pensiero liberale classico e quindi al “suo” Croce, e di lì, lungo il tortuoso percorso della cultura politica italiana, alla sinistra, appunto, di matrice liberale: a quel radicalismo salveminiano che a un certo punto s’incarnò nel partito radicale di Pannunzio e Pannella. E poi ancora, verso i laici, verso l’Ulivo (di cui fu deputato battagliero, a partire dalle battaglie per il pluralismo dell’informazione, come l’amico Beppe Giulietti ricorda bene), infine verso il Pd, un Pd che lo faceva soffrire per le sue incompiutezze e che lo interrogava sulle corrispondenza delle scelte dei leader con quelli che erano i suoi ideali di fondo.
Federico non ha visto la fine del suo grande amico Pannella, e non ha dovuto soffrirne; ricordo personalmente invece quanto Pannella soffrì per la morte di Orlando in una per me indimenticabile telefonata interrotta da lunghi sospiri – o erano tirate di sigaretta? – per non far spezzare la voce dalla commozione. Dopo la scomparsa ci furono messaggi da tutte le parti. Commosso quello dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, conosciuto in anni lontani.
Stefano Menichini scrisse un articolo che commosse tutti: “Caro Federico, nei nove anni nei quali mi hai onorato della co-direzione di Europa, ti sei rivelato l’opposto di come uno immagina le grandi firme. E cioè sei stato sempre disponibile, attento, pronto al commento di giornata come un giovane editorialista rampante, mai reticente se si trattava di esprimere la tua critica e il tuo punto di vista, ma sempre in ascolto dell’opinione altrui. Ti confesso ora perfino l’imbarazzo, nel vederti prendere appunti su ciò che si diceva nella riunione di redazione, quando sapevi che sarebbe toccato a te di sintetizzare nel commento: avevi oltre mezzo secolo di mestiere, eri stato con Montanelli, avevi conosciuto e frequentato tutti i grandi, ed eri lì, interessato alle nostre analisi e pronto a trasformare in editoriale un ragionamento collettivo”.
Già, perché Federico Orlando ogni mattina era lì, al suo tavolo, leggendo tutto, prendendo nota, elaborando idee. Veniva in riunione di redazione contento di ascoltare i colleghi più che di dire la sua. E come un giovane praticante chiedeva consigli e pareri sui suoi pezzi, e sorrideva per gli immancabili complimenti. Era questo l’uomo Orlando, il maestro Orlando, il cui ricordo non svanisce e non svanirà.