Se fossimo ancora a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, almeno per quanto mi riguarda, Ettore Bernabei sarebbe un avversario. Perché era democristiano al midollo, corrente fanfaniana, e perché certe sue idee suonavano abbastanza retrograde e bigotte già all’epoca, figuriamoci oggi! Fatto sta che la sua RAI è stata il servizio pubblico come dovrebbe essere: governativa quanto si vuole ma, al tempo stesso, plurale e ricca di professionisti di prim’ordine quali Biagi, Zavoli, Angela, Gregoretti, Beppe Viola e molti altri ancora, nella stagione politica del centrosinistra e delle aperture, del boom e dei giovani ribelli, dell’emancipazione femminile e delle grandi manifestazioni, battaglie e proteste, innervate da una passione civile che progressivamente è andata affievolendosi.
Ed Ettore Bernabei, uomo di ferree convinzioni, tutt’altro che malleabile, ha avuto la grandezza di andare oltre se stesso, facendo sì che la RAI fosse davvero un servizio pubblico, che vi parlassero tutte le voci, comprese quelle a lui poco gradite, e che nessuno si sentisse escluso dalla narrazione di un Paese in costante e dirompente evoluzione.
Era una RAI animata da una solida cultura dell’inclusione: basti pensare a “Non è mai troppo tardi” del maestro Alberto Manzi, capace di trasformare un’Italia con punte di analfabetismo che, specie al sud, raggiungevano vette allarmanti in una nazione quanto meno in grado di compiere la firma e di far di conto, contribuendo a rendere pienamente cittadini coloro che, altrimenti, sarebbero stati di fatto condannati a forme umilianti di vassallaggio.
Era la RAI in cui Zavoli narrava le imprese del Giro d’Italia e Biagi andava in giro per il mondo, mostrando i cambiamenti che stavano scuotendo le due superpotenze al tempo nemiche e ragionando laicamente sull’America post-kennediana e sull’Unione Sovietica del dopo Stalin, entrambe strette fra modernizzazione e immobilismo, cambiamento e paura di accantonare le antiche certezze. E poi i misteri italiani, la gioventù tedesca a vent’anni dalla fine del regime nazista, la geniale idea di mettere a confronto alcuni protagonisti del tempo con i compagni di classe e gli amici di quando non erano ancora famosi; senza dimenticare i memorabili siparietti fra Tito Stagno e Ruggero Orlando in occasione dell’allunaggio dell’Apollo 11 o la narrazione ai limiti dell’epica della spedizione italiana ai Mondiali messicani ad opera di Carosio prima e Martellini poi.
Era la RAI del grande varietà: da Sordi a Mina alle gemelle Kessler, per non parlare poi del giovanissimo Pippo Baudo e degli ormai affermati Mike Bongiorno e Corrado, a comporre un gruppo di presentatori in grado di coniugare leggerezza e buon gusto, garbo e cultura, spensieratezza e riflessione, trovando l’alchimia perfetta che entrava nelle nostre case in punta di piedi e le riempiva di armonia e di buonumore.
Problemi, censure, critiche, contestazioni ferocissime, polemiche e raccomandazioni c’erano anche allora, figuriamoci, così come c’erano fortissimi condizionamenti da parte della politica e un’acquiescenza nei confronti del governo che causò la prematura conclusione dell’esperienza di Biagi alla direzione del telegiornale, non essendo il soggetto in questione un uomo per tutte le stagioni né, tanto meno, un giornalista interessato a certi fastidiosi equilibri romani dai quali, al contrario, si teneva orgogliosamente a distanza siderale.
Tuttavia, ad averne oggi di Bernabei, ad averla una RAI così, ad averla quella qualità, quella misura, quei servizi, quelle inchieste, quel teatro, quel varietà, quelle serie televisive: ad averlo quel patrimonio che rivive sui nostri schermi giusto d’estate, come simpatico riempitivo in attesa della ripresa della programmazione autunnale!
Perché Bernabei avrà avuto pure mille difetti, sarà stato pure un uomo di parte, talvolta spudoratamente di parte, ma era al tempo stesso un professionista coi fiocchi, innamorato della sua azienda e pronto a battersi affinché offrisse sempre un prodotto di alto livello e in linea con i progressi del Paese.
E ora che questo vecchio guerriero della televisione, all’età di novantacinque anni, ci ha salutato, è impossibile non provare un senso di nostalgia, misto ai ricordi di un’Italia meno volgare, meno inutilmente gaudente, più seria, più posata, con una politica forte e autorevole e cronisti dalla schiena dritta in grado di tenerle testa. Un’Italia in bianco e nero che seppe, al netto dei suoi limiti, entrare nel novero delle potenze mondiali: difficilmente si sarebbe potuto raggiungere un simile risultato se l’informazione non avesse fatto fino in fondo la sua parte.