Burkini. Il divieto non serve. Ci vuole educazione e tempo

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Il dimorfismo sessuale determina – in quasi tutte specie – che il fisico del maschio sia più forte di quello della femmina.
Anche in quella umana. E questo ha comportato che il soggetto più forte (uomo) dettasse regole e ruoli a quello più debole (donna). Perché la prima legge ad entrare in vigore è stata quella del più forte. Poi è venuto il diritto, ma molto più tardi, e ha reso possibile il rispetto, anche verso chi non può procurarselo con la forza.

Le religioni stanno seguendo questi passaggi, ma con un ritardo ancora notevole. E’ l’uomo che trascrive le parole del dio, che guida le comunità e i riti. La donna non deve disturbare. E il disturbo più grande che può arrecare è distrarre l’uomo con il suo aspetto. E così, competere con il capo religioso nell’ottenere attenzione e seguito.

Da qui nasce l’esigenza “religiosa” di far coprire le donne. In cambio si offre stima nei loro confronti, che cresce con l’aumentare delle parti del corpo che sono disposte a copre. La pressione culturale è così forte, che molte donne scelgono di sottoporsi all’annullamento del loro aspetto, pur di guadagnare la dignità sociale.

Il burkini è solo l’ultimo atto di questo processo di competizione tra attrazione sacra e sessuale. La parità educa all’autocontrollo del maschio. La disparità, alla copertura della femmina. Il divieto non serve, se non si disinnesca questo sbilanciamento culturale a favore dell’uomo. Ci vuole educazione e tempo.
Una cosa è certa: se le donne fossero state alte due metri, il burkini avremmo dovuto mettercelo noi.


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