Era l’8 agosto 1991, venticinque anni fa, quando la nave Vlora con a bordo circa ventimila albanesi approdò nel porto di Bari. Un episodio cui all’epoca non prestammo la dovuta attenzione, considerandolo un evento straordinario e forse irripetibile mentre, in realtà, sarebbe stato solo il primo di una lunga serie di sbarchi, dovuti alla fuga dei popoli balcanici da uno Stato ormai dissolto e ridotto a una polveriera.
In poche parole, non comprendemmo, e probabilmente non accettammo, che un’epoca si fosse definitivamente conclusa e che avremmo dovuto imparare a convivere con il mondo in casa, con tutte le conseguenze che questa svolta storica avrebbe comportato.
Quando arrivarono, quei profughi vennero condotti in un impianto sportivo, lo Stadio della Vittoria, e poi in gran parte rimpatriati, con l’auspicio, rivelatosi ovviamente infondato, che quello sbarco inatteso e massiccio restasse un caso isolato.
A quell’episodio, il regista Daniele Vicari ha dedicato, nel 2012, un documentario dal titolo “La nave dolce” (in quanto la Vlora, che venne assaltata a Durazzo dai migranti albanesi, i quali, armi in pugno, costrinsero il capitano a fare rotta su Brindisi, trasportava tonnellate di zucchero di canna imbarcate a Cuba), raccontando la vicenda di questi uomini e di queste donne in cerca di un avvenire migliore che vennero, invece, caricati su vari aerei e ricondotti in patria, dopo che era stato promesso loro di essere portati a Roma.
Quante volte, nei venticinque anni successivi, avremmo assistito allo sbarco sulle nostre coste di navi provenienti prima dall’Albania, specie negli anni della guerra del Kosovo, e poi dall’Africa, in quello che ha ormai assunto le proporzioni di un esodo biblico!
Venticinque anni per accorgerci che nel mondo è cambiato praticamente tutto, che la Jugoslavia si è definitivamente disgregata, che si è passati dal monopolarismo americano al multipolarismo e alla civiltà globale, che si è affermata una nuova rivoluzione tecnologica che ha mutato per sempre le nostre vite e che è cambiato l’assetto politico e di potere del Vecchio Continente e dell’intero pianeta; fatto sta che il nostro approccio riguardo al tema delle migrazioni è rimasto pressoché identico, all’insegna dello scetticismo e della diffidenza.
Gli immigrati come risorsa straordinaria, gli immigrati come forma di arricchimento culturale e di welfare, gli immigrati come elemento imprescinbile e decisivo per il nostro domani, gli immigrati da integrare e valorizzare, evitando che si perdano, vengano sfruttati o, peggio ancora, che delinquano: tutti discorsi nobili ma purtroppo confinati all’interno di una ristretta élite, mentre dilagano il razzismo, l’intolleranza e quelle compagini politiche che su questi sentimenti barbari e viscerali lucrano consensi e poltrone, rendendo il nostro Paese, e diremmo l’intera Europa, assai più chiuso e insensibile di quanto non fosse all’epoca. Il che, se ci pensate, è un paradosso, essendo questa la stagione della massima apertura mai vista, dei social network, delle comunicazioni in tempo reale, dell’interconnessione e dell’abbattimento materiale delle frontiere. Peccato che siano rimaste quelle morali e psicologiche: le peggiori, le più pericolose, le più difficili da scalfire, in quanto sono trincee scavate dentro la nostra anima e radicate nei nostri pregiudizi e nella nostra incapacità di sconfiggerli, guardando al prossimo con curiosità e apertura mentale e tentando di trarre il meglio dalla sua esperienza di vita e da ciò che esso rappresenta.
Venticinque anni e pensare che tutto è cominciato da una nave dirottata a Durazzo che sarebbe dovuta approdare a Brindisi e che, invece, le autorità italiane dirottarono a loro volta su Bari, probabilmente perché nel capoluogo pugliese pensavano di poter contenere meglio questa marea umana inaspettata e alla quale non eravamo minimamente preparati a far fronte.
Venticinque anni e un cauto voltarci indietro, per ricordarci come eravamo, come tutto è cominciato e fare i conti con ciò che siamo adesso, in un contesto internazionale che ci vede sulla frontiera, porta d’ingresso dei disperati che fuggono dall’Africa, costretti a confrontarci con un fenomeno che un quarto di secolo fa sembrava una variabile momentanea e facilmente controllabile mentre oggi ha assunto dimensioni epocali.
Il punto è che lo era già allora, con tutti gli elementi per capire come stessero realmente le cose e quanto fossero insostenibili le disuguaglianze di vita e di prospettive che si erano venute a creare anche a pochi chilometri da noi, solo che abbiamo preferito mettere la testa sotto la sabbia o voltarci dall’altra parte, coltivando l’illusione di poter continuare a vivere in un passato ormai fuori dalla realtà, e oggi paghiamo caro il prezzo della nostra indifferenza.