Fellini un giorno mi passò un libro che era intitolato “Albergo Italia”, di Guido Ceronetti. “Leggilo – mi disse – poi ne parliamo”. Era i 1985, da tempo il regista stava cullando l’idea di realizzare un film sulla provincia italiana, inesauribile miniera di storie e personaggi, fedele ritratto della nostra nazione. A riprova rievocava l’esperienza irripetibile, quarant’anni prima, al fianco di Roberto Rossellini come sceneggiatore e aiuto regista di Paisà, un viaggio cinematografico risalendo la penisola dal sud al nord, e la scoperta di un paese che regalava a ogni spostamento scenari insospettabili, anche soltanto passando da una contrada all’altra distanti tra loro pochi chilometri.
Fellini era innamorato dell’Italia, e stava almanaccando, per raccontarla, di seguire le indagini di un poliziotto impegnato a risolvere un caso criminale di regione in regione; avevamo anche iniziato le ricerche, buttato giù degli appunti. Poi l’ispirazione originaria si era adattata ad altri progetti, che tuttavia conservavano nel profondo quel medesimo velo di nostalgia.
“Albergo Italia” di Ceronetti fu per me una rivelazione abbagliante: mai avrei immaginato che esistesse un autore italiano capace di sovvertire con tanta lucidità ogni luogo comune; di azzerare ogni retorica e descrivere il paese spietatamente nella sua abiezione, nel suo scempio più sgradevole. Ceronetti, forse anche per questo suo spericolato andare controcorrente infischiandosene del consenso a buon mercato, era considerato un reazionario della peggior specie dalla cultura dominante, in quei decenni in ostaggio di un pensiero unico obbligatorio martellato a grancassa dai più importanti quotidiani e dalla TV di Stato.
In tale antagonismo mi scoprii felicemente reazionario anch’io, di sinistra ma reazionario, un bell’ossimoro ideologico. Ceronetti mi aveva donato questa impalpabile euforia, potevo riconoscermi nei valori della conservazione. Fellini lo stimava platealmente giudicandolo un autentico visionario, un oracolo capace di profezie; avevano iniziato a frequentarsi, si chiamavano al telefono, Federico andava volentieri ad assistere agli spettacoli che lo scrittore organizzava per pochi intimi nel suo teatrino domestico e ne tornava invariabilmente rallegrato. Aveva trovato un compagno di strada; e anch’io sulla sua scia.
Ora Adelphi pubblica con singolare tempismo in questa estate turbolenta e sciagurata, i diari dello scrittore torinese, sotto il titolo PER LE STRADE DELLA VERGINE. Si tratta di appunti privati, appena risistemati per la pagina, suddivisi in tre periodi: la prima parte dal 1988 al 1991; la seconda dal 1991 al 1996; la terza dal 1996 al 1998. Per un totale di 278 pagine. Una boccata di ossigeno puro, un ricostituente salutare in un’aria così stagnante e quasi irrespirabile.
Il libro è un vademecum, un baedeker per l’esistenza, basta tenerselo accanto come un angelo custode al seguito, oppure tenerlo sul comodino e consultarlo la sera prima di prendere sonno: reintegra la materia cerebrale delle vitamine e sali minerali di cui ha bisogno, indispensabili per affrontare il nuovo giorno che si apre.
Il contenuto di un simile testo non è riassumibile, si assorbe strada facendo, avendo la fortuna di procedere spalla a spalla accanto a uno degli ingegni più autentici del nostro panorama intellettuale e letterario; basta prestare orecchio ai suoi pensieri, detti a bassa voce, mentre riferisce rapsodicamente di se stesso e dissemina perle scintillanti. Anche queste impossibili da radunare in un cofanetto, ciascun lettore avendo la facoltà di eleggere le preferite, senza mai sbagliare. Vorrei lasciar scorrere la mia collana fra le dita, sfiorandone alcune che mi hanno provocato trasalimenti di riconoscenza e di gioia, facendomi sentire meno solo. O più intelligente; a seconda dello stato d’animo.
L’ottuso progressismo.
«Volendo farla finita con la condizione umana, hanno pensato di migliorarla»
Il vuoto simulacro di uno Stato predone.
«Se la patria non è più che lo Stato, la patria è persa (e lo Stato, se è persa la patria, è in preda al Male)».
«Uno Stato di tutti ladri e tutti derubati. Una circolazione colossale di denaro estorto, per legge o fuori legge non conta».
Il saccheggio del pianeta.
«Tutti quelli che incrementano l’economia industriale dovrebbero essere trattati da posseduti. Sono tutti portatori e procuratori di morte».
La società dei diritti senza doveri.
«25 aprile. Vengo qua al cimitero di Sassi per portare un fiore al mio vecchio e trovo sul cancello questo messaggio: SCIOPERO. Dura da alcuni giorni ed è proclamato «fino a tempo indeterminato». I beccamorti sull’indeterminazione del Tempo debbono saperla lunga».
La Capitale d’Italia.
«Vado a Roma. Mi basta pensare Roma per provare un indicibile schifo».
Il mondo senza vita.
«Dappertutto, micidiale l’aria refrigerata, si entra e si esce come da un frigorifero da obitorio. Il mondo tecnoateo è ripugnante, cerchi invano la vita».
Lo scempio sistematico.
«L’uomo primitivo era soltanto antropofago. L’uomo civilizzato è anche geofago, cosmofago, siderofago. Non c’è limite alla sua gola.
«L’italiano è italofago. Non lascerà nulla di vivo in questa penisola. Macella massacra divora tutto».
L’ospitalità alberghiera.
«Arrivo a Bassano del Grappa il 13 sera, alloggio all’albergo Brennero.
«Un loculo di colombario. C’è persino da averne piacere, nel misurare il brutto di questa camera. Tutto è fatto per dare il malessere: il bagno è di un blu aggressivo, ma il lavabo è nella camera perché in quelle misure non c’entrava. Come dire che i piedi del morto restano fuori. E’ a Tre Stelle».
L’assenza di un discorso.
«Voci al di là del muro, chissà perché sempre sempre VOLGARI. Voci che vengono tutte dal fondo degli intestini, dai confini umani della MATERIA…»
Esortava Fellini nel suo ultimo film La voce della Luna: “Se tutti facessimo un po’ più di silenzio, forse qualcosa potremmo capire.” E Ceronetti da parte sua:
«E’ per via del rumore che perdiamo Dio. Nel silenzio è facile ritrovarlo. Ana al haqq».
(“Sono la Verità” frase pronunciata a Manṣūr dal mistico persiano al-Ḥallaj, (Tur, 858 circa – Baghdad, 26 marzo 922).
Una massa senza sembiante.
«E’ sera di sabato, tutto fermenta orribilmente, bande di giovani senza volto né gangheri, le loro voci sono peggio dei motori e dei clacson, incessantemente il buio vomita facce su facce senza realtà umana… lemuri…»
Vite da cani.
«Ne ho abbastanza di città umane disumanizzate: datemi un canile caldo dove morire in pace».