Attacco alla Germania, Kamikaze in nome dell’Isis, La Germania ha paura. Eccovi, a raffica, i titoli dei tre quotidiani più letti. Paura che ha trovato ieri un motivo in più: il siriano, con pulsioni suicide cui era stata respinta la richiesta d’asilo, era entrato a far parte dell’esercito del nemico, dello “Stato Islamico”, dell’anti mondializzazione radicale, che vuole distruggere ogni forma di civiltà, spegnere la musica, cancellare il sorriso dal volto dei bambini. Che restino solo obbedienza a dio e al califfo, paura, vendetta su chi ancora ama qualcuno. La paura si mescola con la politica: è Angela Merkel che li ha lasciati entrare in Germania, quanti di quei profughi erano (e sono) potenziali terroristi, perché se gli si nega l’asilo non li si caccia subito? Sia detto: l’aver ritrovato il nemico – il terrorismo islamico – è persino consolante, ci mette da una parte della trincea, consente di accusare i nostri generali presunti felloni. La strage di Monaco ad opera di un diciottenne forse vittima di bullismo, aiutato e forse ispirato da un sedicenne,non sembrava invece avere un senso, lasciava l’angoscia nell’aria, non riusciva a trasformarla in rabbia, in dissenso e protesta. Daesh c’è per questo. Tra Siria e Iraq, vende petrolio, riscuote il pizzo, traffica in opere d’arte, consuma viagra e psicofarmaci per trasformare amputazioni, sangue e stupri nelle immagini di un videogioco. Oltre il recinto, catalizza la paura. Da quella paura succhia forza e nuove vite.
L’uccellino Bernie sulla spalla di Hillary. Se fossi stato a Philadelphia, avrei appoggiato anch’io Clinton e affrontato anch’io i fischi di delusione dei sanderistas, titolo del Manifesto. E avrei cercato di spiegare che sì, è vero, Hillary Clinton è un campione del passato, di una politica che portava il carro dove volevano i mercati, che si è mostrata sprezzante con chi stava in basso, che talvolta ha mentito e dissimulato. Una politica probabilmente, anzi certamente, inadeguata ai tempi che viviamo. E perciò che si dovrà riprendere il filo, a novembre, di una “rivoluzione” per ora solo annunciata. Ma la Clinton crede nell’uguaglianza tra uomo e donna, considera libertà e diritti individuali un limite (forse fastidioso ma) necessario allo strapotere di chi comanda, vede gli uomini simili, oltre il colore della loro pelle, l’etnia o le credenze religiose di ciascuno. Si può dire lo stesso di Donald Trump? No. È razzista e considera i messicani sub uomini. Le donne che sogna, mogli o puttane, somigliano alla bambola ad aria in cui un suo simile padano ha creduto di riconoscere la presidente della camera. Mente agli elettori (e gli promette la luna) come voleva che facessero le sue cavie, al tempo in cui conduceva uno show televisivo e li mandava a vendere bottiglie con dentro acqua del rubinetto. In politica estera si pretende realista: niente principi o valori, solo l’interesse americano. Ma sono proprio questi realisti che fanno le guerre.
Perderemo a novembre? É possibile. Quando leggo Matt Browne, intervistato dalla Stampa, che vuole “un patto tra progressisti per fermare i populisti”, che dà appuntamento a settembre in Canada, con Renzi e Trudeau, per costruire una nuova Terza Via, penso: “questi non hanno capito nulla”. Non si sono accorti che la guerra di Blair in Iraq ha evocato il nostro incubo d’oggi, il califfato. Non capiscono che il loro storytelling s’è rotto, che non avremo mai più un boom come quello degli anni 60 e che è illusione credere (e far credere) che questo potere finanziario ne abbia anche per i nostri figli, anche per il ceto medio. O che l’abbondanza torni a cacciare i fantasmi della guerra e del terrorismo. Al contrario, una nuova politica dovrebbe puntare sui consumi collettivi, scegliere cosa e come produrre, riconvertire l’economia, tassare rendite catastali e capitali finanziari, fare i conti ogni giorno con il rischio di guerre e attentati, ripudiare i dittatori e difendere dovunque libertà e diritti, dialogare con chi sta in basso, essere umili e trasparenti, aprire la casa del potere alla partecipazione popolare. Vasto programma, lo so. Ma non più utopista di quello esposto, per Repubblica, da Marc Lazar, il quale chiede, in sostanza, ai tradizionali politici europei di “aver coraggio”, di non vivere nell’emergenza ma di rifondare la loro politica, “contro i populismi” di destra e di sinistra. Caro Marc, costoro, Valls, Renzi, Sanchez, Schulz, sono i cani da guardia dell’emergenza. La loro politica è solo congiunturale perché l’assunto è che non si possano davvero cambiare le cose, che al massimo si possa ottimizzare – esporre bene sui tavoli di governo – i doni che i mercati concedono. Costretti a raccontar balle sulla ripresa, pronti a minimizzare ogni rischio, incapaci di dire a Erdogan quel che a Erdogan si dovrebbe dire.
La cornice della nostra vita sociale – scrive invece Mauro Magatti sul Corriere – “è ormai irrimediabilmente cambiata: dall’euforia della crescita illimitata siamo passati all’angoscia della recessione e della violenza”. L’articolo si intitola “Le sfide dopo la fine del neoliberismo” e testimonia che esistono ancora osservatori realisti. Magatti descrive l’alternativa della politica tra quanti pensano che occorra “gestire ancora più tecnicamente la cosa pubblica” e quanti invece ritengono che “il caos in cui ci troviamo sia la conseguenza della usurpazione del potere da parte delle tecnocrazie”. Sapete da che parte io stia, parte scomoda senza dubbio. Ma non più scomoda di chi propone la quadratura del cerchio.