Rai, oggetto e non soggetto del passaggio al digitale terrestre

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Ringrazio per l’ospitalità della FNSI, oltre a tutti i presenti, alcuni dei quali hanno contribuito in maniera decisiva a guidare la mia ricerca, che si è svolta attraverso una permanenza di 6 mesi presso la Broadcasting House londinese della BBC ed i molti centri di produzione Rai di Roma.

In questo lavoro, pubblicato dall’Editore Minerva nella Collana di Studi Eurispes, non mi sono ripromesso di svelare scenari incogniti, ma di guardare alla Rai con gli occhi di chi, per un verso, considera comunque essenziale il ruolo del nostro servizio pubblico radiotelevisivo; per un altro, da una certa distanza rispetto alle baruffe talvolta chiozzotte che la riguardano. Distanza dovuta anche all’appartenenza ad una generazione che è nata con la televisione commerciale e con il duopolio in un panorama in cui la comunicazione si è da tempo parcellizzata nella rete. La Tv pubblica del primo quarantennio non l’ho quindi vissuta ma solo studiata, scoprendo tra l’altro come i miei coetanei, ma anche molti quarantenni, poco o nulla sanno o ricordano dell’impatto decisivo avuto dalla “prima” Rai nella crescita del Paese. Anche per questi soggetti dedico nel mio libro alcune schede che sintetizzano la storia, in alcune stagioni gloriosa, della Rai.

Ma la Rai a cavallo tra vecchio e nuovo secolo ha ampiamente dimostrato che non si può “vivere sugli allori”. Non sto parlando delle critiche che possono esserle mosse per la qualità dei programmi o la continua ricerca dello share e degli ascolti, numeri per i quali la Rai risulta ancora vincente. No, ciò che la Rai ha perduto di vista in questi anni è il suo ruolo di “agenzia culturale”, di agenzia di senso di questo Paese, un ruolo confermato fino alla soglia degli anni ’80 e riproposto ma non realizzato in alcune fasi degli ultimi decenni. Il bilancio della mia ricerca è, ovviamente, variegato, ma di fronte a tanti casi di produzioni di qualità ed indubbie manifestazioni di capacità professionale, giornalistica e artistica, è difficile affermare che all’oggi la Rai sviluppi appieno il suo ruolo di servizio pubblico. Non è un caso, su questo versante, che anche quelle trasmissioni televisive e radiofoniche premiate dallo share non riscontrino un pieno “apprezzamento” da parte del pubblico. Il professor Mario Morcellini in una delle conversazioni che compendiano il mio lavoro osserva proprio come il giudizio del pubblico verso la programmazione Rai sia spesso e volentieri critico perché, a prescindere dalla qualità dei singoli programmi, il teleutente tende ad ascrivere alla programmazione del servizio pubblico compiti e ruoli che non vede soddisfatti. il pubblico c’è, ma il “cittadino” non sente “sua” questa Rai. Ne fa uso, la consuma, ma non riscontro differenze tra l’offerta del Servizio Pubblico e quella della televisione commerciale.

Esplicitata o meno che sia, la mission è ciò che caratterizza e innerva un servizio pubblico, mentre lo share, spesso coniugato in assoluto, andrebbe rapportato alle finalità proprie della “agenzia culturale”. Renato Parascandolo, che ringrazio per il contributo al mio libro, con l’iniziativa che ha coordinato negli ultimi anni – Una carta d’identità per la Rai – ha lavorato in tal senso, ed attraverso una consultazione di base tra gli studenti, elementari e liceali, ha elaborato una definizione aggiornata di mission, che è stata presentata sia ai dirigenti Rai che al ministro Giacomelli che al Presidente della Repubblica. Questo non è, almeno per me, l’agire di un l’alfiere nostalgico di un’epoca sorpassata e di sensibilità che non possono tornare. Al contrario parlare di mission per il servizio pubblico è essenziale, tanto più in una fase che da anni è caratterizzata da forte crisi economica, perdita di peso e di ruolo dei corpi intermedi, illanguidimento delle identità storicamente determinanti che hanno incanalato la crescita civile ed sociale del Paese. Da questo punto di vista, la crisi della mission della Rai fa il paio con quella che ha sconquassato anche l’altra grande agenzia di senso, il sistema scolastico, depauperato a più riprese in anni passati di risorse ed interesse. Non bisogna essere degli ispirati  profeti per vaticinare che una società non si regge, non tiene se non è dotata di agenzie di senso e se è lasciata in balia di un mercato senza se e senza ma, con canali di comunicazione primari appaltati all’apparente spontaneismo della rete. Inutile dire che di mission del servizio pubblico si parla poco e male anche in tempi di parzialissime e contestate riforme e di rinnovo della concessione Stato-Rai, mentre la massima attenzione, da parte di una cerchia comunque ristretta di classe politica e giornalistica, che male interpreta i cittadini in carne ed ossa, si concentra sul tema della governance. Ovviamente la governance resta importante ma, personalmente, mi interessa di più «su che cosa cosa» si esercita la “governance” che su «come» governare. A muovere le stesse critiche anche Vincenzo Vita, che denuncia come a suo tempo anche da sinistra non si sia riusciti a generare un sistema radiotelevisivo più equilibrato e meno «succube» dell’egemonia delle televisione commerciale.

A sostanziare queste critiche, dedico 3 paragrafi del mio libro all’analisi del “termine di paragone”: la BBC. Ne tratto la storia, i progetti avviati nell’ultimo decennio ed il rapporto con le altre realtà della società britannica. Da qui il titolo “No, non è la BBC” che riprende uno dei più noti gingle del Renzo Arbore di “Alto Gradimento”.  A metà degli anni ’70 la Rai poteva infatti guardare negli occhi il mitico Servizio pubblico britannico proprio grazie alla funzione che aveva svolto e svolgeva nell’accompagnare la crescita del Paese, a partire dall’unificazione linguistica.

A differenza della Rai, la forza della BBC sta anche oggi tanto nel proporre produzioni di qualità, che nella capacità di andare incontro ai cambiamenti della società britannica accompagnando da protagonista queste trasformazioni. Se a noi osservatori esterni la BBC può apparire, data la sua storia quasi secolare, un’istituzione monolitica sempre uguale a se stessa, l’azienda è in realtà fluida, capace di rinnovarsi ed andata in anni recenti incontro a molte trasformazioni. La principale è stata, nel 2007, la sostituzione dello storico organo direttivo dell’azienda, il Board of Governors, frazionato in un consiglio amministrativo, lo Executive Board, e da un organo di indirizzo della compagna, il Bbc Trust. L’obbiettivo trasversalmente condiviso è stato quello di presidiare e rinsaldare l’autonomia della BBC dall’influenza del potere esecutivo. Anche in Gran Bretagna, dunque, ci si occupa di governance, ma in quel frangente la mission del servizio pubblico non è stata messa in discussione, anzi è stata ribadita con il varo di politiche come il “continuous improvement program” e  “delivery quality first”. La tabella che segue illustra i tanti cambiamenti e adeguamenti intervenuti per “meritare” il plauso dei cittadini e assicurare l’utilizzo più oculato del canone, che – lo ricordo – in assenza di ricavi pubblicitari per le produzioni destinate al mercato nazionale, rappresenta l’unica risorsa, per altro assai ingente, su cui la BBC può contare: circa 4 miliardi e 300 milioni di euro al cambio del dopo brexit, ovvero due volte e mezzo il valore del canone della Rai.

tabella 1tabella 2Molte delle campagne degli ultimi anni hanno riguardato iniziative mirate a distribuire sul territorio nazionale i centri di produzione, a ristrutturare i canali del broadcasting e a crearne sul web, a ridurre i costi, ed anche a ridurre progressivamente il gap tra gli stipendi del dipendente medio e dei dirigenti. Questa ultima iniziativa forse può apparire venata di “populismo”, dato che il nuovo Trust ha certamente mirato a guadagnare il sostegno della pubblica opinione, ma è importante segnalare come complessivamente la rinnovata BBC abbia operato concretamente ed efficacemente nel sistema delle comunicazioni e nella Conversione al Digitale della Gran Bretagna.

Merita qui particolare menzione l’iniziativa avviata dalla BBC per facilitare la transizione: il Digital Switchover Help Scheme, un piano d’informazione e supporto rivolto ad assistere i consumatori disagiati (anziani o disabili) nell’ambientarsi con i nuovi strumenti digitali. Questa campagna, condotta dalla compagnia con l’ausilio di 603 milioni di sterline di finanziamento pubblico aggiuntivo al canone, ha in 5 anni supportato oltre 7 milioni di utenze e offerto pratica assistenza (nella forma di visite a casa, centri di divulgazione per le strade o simili) ad 1.3 milioni di persone anziane o disabili, per buona parte a titolo gratuito. Delle risorse rese disponibili, la BBC ha in seguito restituito allo stato circa 400 milioni di fondi non spesi, a riprova di una politica aziendale votata al risparmio e al rispetto delle risorse pubbliche.

Per fare un parallelo che risulta alquanto avvilente, la Rai è stata perlopiù oggetto e non soggetto del passaggio al digitale terrestre, mentre in quegli anni il governo si è “limitato” a finanziare alcune aziende amiche attraverso il contributo per i decoder.

Ma rimanendo al tema della piattaforma digitale, anche dieci anni prima del Trust la BBC si poneva come “national champion” ed autorevole operatore del web attraverso un’offerta sempre nuova e puntuale che ha rivoluzionato e aggiornato la filosofia tradizionale del brodcasting. Sono anni che la BBC non produce “soltanto” per il video, in cui comunque si conferma l’operatore leader, ma imposta una consistente parte della sua offerta perché sia direttamente declinabile per il web, che inoltre si caratterizza per una rilevantissima presenza di educational. Ciò accade perché i tempi e le modalità per l’assunzione dei contenuti educativi tendono a favorire l’on demand alla televisione, e questo la BBC lo ha capito quasi subito. Il pubblico britannico è stato così attirato verso il consumo della rete proprio dalle offerte della BBC, che non a caso occupa con il proprio comparto web il ventesimo posto nelle classifiche mondiali e il settimo in Gran Bretagna, dove rappresenta di gran lunga il primo soggetto editoriale. Ben diversa è la situazione in Italia, come si ricava dalle tabelle che seguono. La Rai ha ancora una presenza assai poco significativa nel web, di contro a quella più rilevante di diversi soggetti editoriali come Repubblica, Il Corriere della Sera, e persino il Fatto Quotidiano.

tabella 3Negli ultimi anni stiamo comunque assistendo ad una crescita dei consumi di alcuni prodotti Rai sulla piattaforma online, ma si tratta per molti aspetti di un fenomeno “spontaneo” dovuto alla presenza ed alla diffusione di questi contenuti sui social network ai quali è ormai possibile accedere continuamente grazie agli smartphone delle ultime generazioni.

 

Questi numeri testimoniano una realtà piuttosto chiara e avvilente: la Rai non ha neanche tentato di svolgere una funzione da servizio pubblico nella crescita del web, e gli effetti dell’assenza del nostro potenziale campione nazionale si sentono, e come, in una rete che è dominata da soggetti non italiani e utilizzata principalmente nell’area dei social votati all’intrattenimento. Mentre la BBC ha cavalcato e determinato lo sviluppo del web, da noi la Rai è stata assente, e questa è una pesantissima responsabilità che non si giustifica, ma si spiega, con l’assenza di una “testa” da servizio pubblico.

Se ci chiediamo il perché, a mio giudizio la spiegazione è semplice, e rimanda a quella contraddizione caratteristica del duopolio pubblico-privato creato ad arte per presidiare gli interessi della Tv commerciale: la dittatura della pubblicità. Il web è un sistema che va creato dal nulla, con ricavi che si sostanziano solo dopo anni e consistenti investimenti ad opera di soggetti sia privati che pubblici. In Italia si è preferito da parte dei privati – leggi Mediaset – raschiare il fondo del bidone del tradizionale advertising, in logica di quel semi-monopolio in mano allo stesso attore, leader del sistema pubblicitario. Perché occuparsi di web se gli affari, i fatturati, si realizzano nel broadcasting? Da parte pubblica e, quindi, in Rai, è invece mancata la volontà stessa di indirizzare ed educare il pubblico all’utilizzo delle potenzialità della rete. Questo disimpegno, che nella ricerca illustro a fronte delle iniziative condotte a molti livelli dalla BBC, si ritrova anche in un altro ambito nel quale – per quello che vale – si addensa la critica più forte mossa nel mio libro alla Rai: quella di aver mancato di sviluppare nell’ultimo trentennio la collaborazione con il sistema dell’istruzione, che aveva rappresentato una delle funzioni universalmente riconosciute alla Tv degli anni ’50, ‘60 e ‘70.

Il confronto tra l’impegno nell’area educational tra Rai e BBC è a dir poco deprimente, e non perché siano mancate in Italia proposte culturalmente e professionalmente adeguate. Ma anche in questo caso la “testa” della maggior parte delle dirigenze Rai è stata in un “altrove” deprivato della coscienza di quanto sia essenziale il ruolo del servizio pubblico in ambito educativo e culturale. Ancora oggi quel poco che resiste nell’area educational della Rai affonda le radici nel lavoro di operatori e intellettuali impegnati in azienda come – e lo cito ancora – Renato Parascandolo o come Gianpiero Gamaleri. Anche Tullio De Mauro nel mio libro parla di un “totale disimpegno” della Rai, a partire dagli anni ’80, dalla funzione pedagogica che solo per i de-culturalizzati e gli ignoranti “sa” di arcaico e di superato.

 

Tabella 4La tabella qui sopra dimostra come anche quei canali tematici deputati alle produzioni “di cultura” e “educative” (Rai 5, Rai Storia e Rai Scuola), rappresentino solo dei “ghetti”, e non per la qualità delle proposte, ma per il disinteresse con cui queste sono vissute a Viale Mazzini. Se si tratta di mettere i bambini davanti al video per liberare mamme e parenti, encomiabilmente Rai-YoYo “funziona”, anche nello share. Ma passando a Rai Storia, a Rai5 e, soprattutto, a Rai Scuola, viene il dubbio che gli ascolti censiti più che reali siano il frutto della tolleranza dei sistemi di rilevazione che non possono “produrre” numeri algebrici, ossia negativi. Il confinamento delle offerte di particolare qualità in canali tematici negletti in primo luogo all’interno della stessa azienda è un segno dello scarso coraggio della dirigenza che rincorre l’ascolto di prime time e teme – erroneamente – che la qualità non si coniughi con lo share.

 

Tornando al confronto con la BBC, vorrei segnalare un aspetto che coniuga insieme il delta sia nell’attenzione al sistema scolastico che a quello dello sviluppo del know-how del web. Della Rai abbiamo detto. La BBC, invece, ha sempre contribuito allo sviluppo del digitale. Una prima volta addirittura negli anni 80’ con il Computer Literacy Program e, qualche mese fa, nella primavera appena passata, con il progetto BBC Micro Bit. LINK. La BBC ha portato a termine queste due operazioni indirizzate al mondo degli studenti e consistenti nella produzione e distribuzione a proprie spese, quindi con i soldi del canone, di milioni di device consegnati alle scuole pubbliche e private e agli studenti delle superiori finalizzati ad acquisire skills nella programmazione informatica, assecondando l’aggiornamento dei programmi ministeriali che hanno introdotto nel 2014 la materia di computing tra quelle obbligatorie.

In conclusione di questo intervento, vorrei segnalare che cosa, da cittadino, vorrei dal mio servizio pubblico, per il futuro della Rai: sanare quegli abissi che si sono creati con il mondo della formazione e dell’istruzione, e quella carenza di ruolo nel web che contribuisce a rendere quello italiano di qualità sostanzialmente scarsa. Ma per far questo è necessario un altro elemento fondamentale: smetterla di confrontarsi solo con lo share. Quali soluzioni adottare? Non sta a me indicare le soluzioni tecniche, soluzioni che hanno un’evidente rilevanza politica e di sistema. Quello che io auspico è che il primato gerarchico della pubblicità nella testa della dirigenza Rai lasci spazio ad una rinnovata vocazione civica e sociale, e che questa vocazione possa venire invocata e riafferma ad ogni passaggio.
Solo così il Servizio Pubblico fa il servizio pubblico. La soddisfazione del primato dello share è, al contrario, un boomerang se per ottenerlo si deve operare come un soggetto commerciale. Onestamente, preferirei uno share non al 38 ma magari al 32 o al 30, sempre comunque rilevante, che un dato più elevato “riempito” spesso di vacuità. A metà degli anni 50, quando finì il monopolio televisivo in Gran Bretagna, in pochi mesi la BBC perse il primato degli ascolti. Lo perse e lo riconquistò 10 anni dopo senza cambiar pelle per inseguirlo. Si ammodernò, modificò le sue offerte mantenendo un equilibrato rapporto tra informazione, formazione ed intrattenimento, continuando ossia a svolgere la sua funzione nei confronti del cittadino britannico, che la ha sempre ricompensata pagando un alto canone con un’evasione sotto al 5%. In Italia, come sappiamo, prima del canone in bolletta che esordisce questo mese, eravamo attorno al 27%.

 

Vista la grande abbondanza di professionalità artistiche, giornalistiche e tecniche che operano in Rai, sono convinto che con un’azienda “liberata” dalle pastoie degli ultimi decenni “non ce n’è per nessuno”, come è avvenuto nei campi scientifici, della produzione cinematografica e della ricerca. Inoltre, considerando che l’italiano è una delle più diffuse lingue di cultura mondiale, e che nel mondo c’è fame d’Italia; come auspicato dal prof. Gamaleri, un servizio pubblico degno di questo nome dovrebbe e potrebbe rappresentare il Paese in un contesto di globalizzazione, come per altro meritoriamente fa con alcune produzioni di alta qualità. Tanti sono stati gli appelli prodotti negli anni da parte di chi si batte per un ripristino, una rifondazione del ruolo del Servizio Pubblico. Nel mio piccolo, e anche con questo lavoro, io mi batto per questo, consapevole che se  non ce la faremo, come dice Moretti, inevitabilmente il Paese “continuerà a farsi del male”.

*Intervento di Luca Baldazzi, animatore de L’Osservatorio Quotidiano dei Tg e ricercatore Eurispes in occasione della presentazione del suo libro “No, non è la BBC”


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