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Querele temerarie: novità dal nuovo ddl sul processo civile e dagli ordinamenti degli altri paesi europei

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Mentre il governo sta decidendo sul nuovo ddl per la riforma del processo civile, e con l’auspicio che l’esecutivo e il parlamento tengano conto delle proposte della FNSI, aggiorniamo la questione delle querele temerarie, sempre più strumentalizzate da chi vuole porre un freno alla libera informazione.
Come sappiamo, le querele temerarie vengono utilizzate da chi, paventando una (insussistente) lesione della propria reputazione e facendo leva sul diritto alla tutela della reputazione stessa, sporge querela (o minaccia di farlo) al solo fine di intimidire o minacciare il giornalista.

Tale fenomeno ha preso piede proprio in ragione del fatto che il legislatore italiano non ha previsto una vera e propria sanzione per chi, sapendo di non essere nel giusto, abusa dello strumento giuridico della querela al solo scopo di arrecare danni al giornalista.

In altri paesi europei, al contrario, il legislatore ha previsto – per arginare il fenomeno – il versamento di una cauzione da parte di chi deposita una querela, che servirebbe a risarcire il querelato in caso di assoluzione dello stesso.
Tale espediente sarebbe utile anche in Italia per evitare o quanto meno limitare tali abusi e la conseguente compressione del fondamentale diritto di cronaca.

E’ opportuno evidenziare, tuttavia, che negli ultimi anni si è assistito ad una crescita esponenziale del ricorso alla giustizia civile in luogo della tutela penale (querele temerarie): lo strumento della citazione in sede civile per il risarcimento dei danni, che potendo comportare conseguenze molto pesanti – se non addirittura insostenibili – per un giornalista o una testata giornalistica assolve allo stesso scopo intimidatorio di una querela temeraria, presenta numerosi “vantaggi” rispetto alla tutela penale, di ordine soprattutto processuale.

Mentre in sede penale, infatti, il termine per presentare la querela è di 90 giorni dalla pubblicazione della notizia, il termine di prescrizione in sede civile è quinquennale: l’art. 2947 c.c. prevede infatti che «il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato» e, «in ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile».

Va inoltre considerato che, mentre nella procedura penale la querela presentata dalla persona che si sente diffamata è soggetta ad una attività di “filtro” da parte del magistrato, che accerta la rilevanza penale o meno del fatto oggetto della querela stessa, le citazioni in sede civile non sono sottoposte ad alcun esame preliminare e vengono avviate all’esame del giudice civile senza un vaglio preventivo.

Chiusa la parentesi delle cause civili, è necessario fare una premessa di ordine generale: è evidente che anche un giornalista possa sbagliare, sia in buona fede sia invece abusando della propria posizione per diffamare qualcuno; in tali casi è giusto e legittimo che il cittadino effettivamente leso abbia il diritto di far valere le sue ragioni ed ottenere un eventuale risarcimento dei danni subiti.

Ma qui discutiamo dei casi in cui è evidente l’infondatezza di quanto posto alla base della querela e nei quali dovrebbe (uso volutamente il condizionale) essere garantita una tutela efficace ai giornalisti lesi ed intimiditi.

La Cassazione in merito ha posto dei limiti a tale tutela, disponendo che la denuncia di un reato (tanto nell’ipotesi in cui esso sia perseguibile d’ufficio, quanto in quella in cui sia procedibile solo su querela di parte) non è mai fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante, anche in caso di proscioglimento o di assoluzione del denunciato.
Il denunciante, dunque, salvo che abbia agito con l’intenzione deliberata e consapevole di calunniare, non è tenuto al risarcimento se la sua richiesta di condanna viene rigettata e l’imputato assolto, per due ordini di motivi.

In primo luogo, ad ogni cittadino è riconosciuto il diritto di agire (in via civile o penale) a tutela dei propri diritti: stabilire una sanzione per l’azione giudiziaria, anche se infondata, equivarrebbe a limitare tale diritto.
In secondo luogo, nel processo penale l’azione è portata avanti non dalla parte (come invece avviene nel giudizio civile), ma dallo Stato, nella persona degli organi inquirenti e della Procura della Repubblica e dunque potrebbe essere solo lo Stato il soggetto responsabile per l’azione penale infondata.

In poche parole, pertanto, colui che è stato assolto nel processo penale a seguito della presentazione di una querela temeraria ha solo due possibilità:

  • può chiedere il risarcimento del danno in sede civile al denunciante, solo se questi abbia agito condolo, ossia con l’intento di calunniare l’altra persona che ben sapeva essere innocente (la calunnia è infatti fonte di responsabilità e di risarcimento – con prescrizione quinquennale);
  • nel caso in cui non vi sia stata calunnia, può chiedere il rimborso delle spese necessarie per difendersi nel giudizio penale se il querelante/denunciante abbia agitotemerariamente, ossia con colpa grave. Questo è il caso della “responsabilità processuale aggravata” o lite temeraria, disciplinata dall’art. 96 c.p.c., il cui procedimento volto al risarcimento dei danni va presentato allo stesso giudice penale che ha deciso il processo conclusosi con l’assoluzione (unico giudice in grado di valutare la sussistenza o meno dei presupposti di un risarcimento per colpa grave richiesto dall’imputato da lui stesso assolto). La norma in esame, che non ha natura meramente risarcitoria ma “sanzionatoria”, manifesta il tentativo di utilizzare la leva dei costi prodotti dal fenomeno processuale, al fine di scoraggiare l’abuso del processo.

Dal quadro sopra delineato ritengo che la tutela offerta dal nostro ordinamento ai giornalisti contro gli abusi che strumentalizzano la tutela della reputazione sia fortemente limitata, in quanto accedendo all’interpretazione fornita dalla giurisprudenza della normativa vigente, la temerarietà viene considerata un sinonimo di dolo o di colpa grave: si arriva pertanto al risultato che per condannare la parte soccombente (querelante temerario) al risarcimento dei danni o al pagamento delle spese anche della parte avversa (soggetto assolto) quest’ultimo debba fornire prova del fatto che la causa è stata deliberatamente intentata in mala fede. La tutela inoltre è ulteriormente limitata dal fatto che essa è solo posticipata rispetto alla consumazione di un reato o ad un abuso in sede civile che sarebbe invece opportuno impedire in via preventiva.

Fortunatamente la riforma del processo civile dovrebbe andare in direzione opposta: il Disegno di Legge n. 2953-a «delega al governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile» approvato il 10 marzo 2016, nella parte relativa al “processo civile in generale” prevede alcune modifiche dell’art. 96 c.p.c. che consentirebbero una maggiore tutela a favore di chi subisce procedimenti temerari:

all’articolo 96, terzo comma, del codice di procedura civile, prevedere che nella determinazione della somma ivi prevista il giudice, nel caso in cui la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede, condanni la medesima parte soccombente al pagamento di una somma in favore della controparte, determinata tra il doppio e il quintuplo delle spese legali liquidate;

“prevedere che il giudice, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91 del codice di procedura civile, condanni d’ufficio e anche se non sussistono gli altri presupposti di cui all’articolo 96, primo comma, del codice di procedura civile, la parte soccombente, che ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, al pagamento di una sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende, di importo determinato, tenendo conto del valore della controversia, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per l’introduzione del giudizio.”

Una tutela preventiva ed effettiva della libera informazione, seguendo il solco di queste prime proposte di riforma della giustizia, aiuterebbe l’Italia ad uscire dal novero – nel quale è entrata dal 2008 – dei paesi di serie B, in cui l’informazione giornalistica è solo “parzialmente” libera. Seguire l’iter del nuovo ddl sarà quindi un impegno importante per la tutela dell’articolo 21 della Costituzione.


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