Parigi, luglio 2016 “ Je n’ ai pas i peur des represailes, Je n’ai pas de gosses, pas de femme pas de credit. C est peut- etre un peu pompeux ce que je vais dire , mais je prefere mourir debout que vivre a genoux.”
Charb-2012 – #JeSuisCharlie
Da quel giorno, 7 gennaio 2015, 20 morti di cui 17 civili e 3 terroristi, 12 nella redazione del giornale Charlie Hebdo, tutti siamo diventati #JeSuisCharlie#, e tutti abbiamo messo la bandiera francese sui nostri profili di fb, Twitter e ci siamo sentiti vicini ad un popolo che la libertà se l’e’ legata alla fratellanza e all’uguaglianza, che ha la patria nel sangue. Ma da allora in Francia, più che in altri posti d’Europa, non c’è pace. Parigi, Bataclan,
13 novembre 2015, 137 morti, compresi i 7 attentatori, Nizza, 14 luglio 2016, 84 morti, tra cui tanti bambini, poi una Chiesa, un prete sgozzato, una suora gravissima e i due attentatori uccisi….Storie di spari, di sgozzamenti, di violenza e morti in nome di chi, non certo di un dio che con il terrore non può avere nulla a che vedere. L’ Isis che rivendica attentati ovunque, qui in Francia ha seminato violenza e pazzia, ma non ha piegato un paese che non ci sta a vivere a meta’.
E Parigi piena di turisti a luglio non sembra la città colpita dal terrorismo nel cuore. In un teatro in cui morirono tanti ragazzi non c’ e’ piu’ nulla. Tutto in rifacimento, e una finestra aperta sembra l ‘unica via di fuga per i ricordi di una brutta serata da incubo. Vicino al teatro c’è una sartoria. La donna, minuta come tante francesi, a voce bassa e calma mi racconta di aver lasciato il laboratorio in cui lavora, proprio accanto al teatro , pochi minuti prima, e di ricordare solo il dolore di tante persone morte assurdamente. Ma dice di voler guardare avanti. E qui fanno tutti così. Tutti vanno avanti e hanno poca voglia di parlare. Per strada nulla fa pensare ad uno stato di allarme a Parigi. In tv i canali francesi di cronaca in diretta, in modalità h24 sembrano monopolizzare l’attenzione sull’onda emotiva che segue gli attentati, come l’ultimo nella chiesa di Rouen in cui due ragazzi di vent’anni terroristi Isis, entrambi schedati, i cui nomi non hanno importanza, ma di cui uno era legato a Daesh, dunque noto alla polizia antiterrorismo, con la lettera S che in gergo vuol dire a rischio radicalizzazione.
Il procuratore di Francia Molins ha dichiarato che uno dei due era scappato in Siria, poi arrestato in Germania, e a suo carico pendeva un mandato di cattura internazionale. In Turchia il 13 maggio era intercettato e arrestato con carta di identità di un parente è poi rinviato a giudizio e posto ai domiciliari con braccialetto elettronico. Questa escalation di violenza che colpisce la Francia dovrebbe scatenare mille domande nei francesi, ma i media mostrano candele accese davanti alla chiesa, gente in lacrime nel ricordo di un prete anziano, barbaramente ucciso, vicinanza da parte delle comunità mussulmane, ma poco traspare sul perché la Francia, attualmente il paese più colpito dal terrorismo di matrice islamica, possa farsi trovare così impreparata.
Un camion che passa attraversa una zona così popolosa mietendo morte in una notte di festa vuol dire che chiunque può entrare nei punti caldi di città europee oltrepassando senza problemi i controlli. Un camion bianco che si scaglia sulla folla rappresenta la totale assenza di posti di blocco adeguati. Un esempio per tutti: prima dell’attentato del 13 novembre nei pressi della Tour Eiffel l’accesso era libero, mentre ora esiste una sorta di sistema di filtraggio che dovrebbe impedire l’ingresso di armi.
In realtà trattasi di 4-5 punti di ingresso/uscita in cui persone non armate perquisiscono in modo approssimativo chiunque passi, guardando sommariamente negli zaini e passando velocemente con un metal detector su parte del corpo. Poi tutto intorno transenne e tornelli. Al di là di questo quadrato sporadici gruppi di poliziotti camminano armati, dando l’unica idea che riconduce al rischio attentati.
Per tutto il resto, metro, monumenti, punti nevralgici e gli stessi luoghi degli avvenuti attentati sono privi di qualsiasi forma di protezione, segno di voler andare avanti o…. di non voler calcolare il rischio esistente, perché lo testimoniano i ripetuti fatti tragici avvenuti. Premesso che l’Europa è al momento una realtà solo sulla carta e che l’unità contro il terrorismo deve unire ogni bandiera va detto che proprio chi scrive di libertà d’espressione deve dare agli altri la possibilità di esprimersi altrettanto liberamente.
Per esprimersi serve domandare, informarsi, documentare. Domandare è lecito, rispondere per chi fa informazione è un dovere. Bene, dalla redazione di Charlie Hebdo nessuno e sottolineo nessuno vuole incontrare giornalisti. Una stagista in forza al giornale da due settimane, racconta di una chiusura totale a domande inerenti il clima post-attentati, indipendentemente dal nome, dalla testata, dal possesso o meno di un tesserino, come avvenuto in strada con inviati di tv francesi che, pur mostrandosi gentili e disponibili, non rilasciavano alcun parere sui fatti accaduti e nello stesso studio televisivo in cui ci si era accordati sulla modalità di un dibattito sulla situazione, alla parola terrorismo si avvertiva la volontà di stoppare qualunque domanda sul perché sia stato possibile attaccare un paese già in allarme per mano di evidenti pseudo terroristi che compiono gesti folli in nome, però, di un reale terrorismo che di questi folli si nutre e si diffonde nel mondo come un polpo dai tentacoli interminabili.
Informarsi, è cosa necessaria e gli umori dei parigini corrispondono a uno stato di fatto: andare avanti ponendosi poche domande sull’esistenza dei buchi che hanno permesso tutto ciò.
Documentare è cogliere li dove tutto è iniziato ciò che resta dopo il passaggio della morte. Una lapide in memoria dei morti sul civico n.10 di rue Nicolas Appert, sede della redazione di Charlie Hebdo e quelle parole sul muro… preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio.
(foto Vincenzo Aiello)