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Nizza e “le città bianche” insanguinate dall’odio

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“Nizza sembra uscita dalle pagine dei romanzi di società e popolata dai loro eroi. La maggior parte dei personaggi che si incontrano lungo la Promenade des Anglais e sulle spiagge nasce dalle biblioteche circolanti e dai sogni di ragazzette di provincia. Individui simili non può averli creati Dio. Non sono fatti di volgare terra, ma di moderna polvere di carta”. Così, alla fine degli anni Venti del secolo scorso, Joseph Roth, il graffiante, malinconico, visionario scrittore del declino della Mitteleuropa e dell’Impero austro-ungarico, delle illusioni perdute che si fanno realtà, mostrando la nudità dell’anima, descriveva Nizza nel reportage sul Sud della Francia per il giornale tedesco “Frankfurter Zeitung”.

La Francia era per lui, ebreo errante in esilio, la “terra promessa”, luogo di “libertà e cultura”. Le sue “Città bianche”, abbacinate dal sole caldo e accecante della Provenza, bagnate dal mare blu, a volte sferzate dal gelido Mistral, inebriate dai profumi dei campi di lavanda, fecero da sfondo al suo viaggio nella memoria intima e nella storia antica: la realizzazione di un sogno giovanile, alla ricerca di un’Europa utopica, libera dalle ideologie totalitarie e unita dai princìpi dell’universalismo cosmopolita, erede delle antiche vestigia della Roma imperiale. Un tempo ed uno spazio in cui paganesimo, ebraismo e cristianesimo si fondevano in una sintesi ideale, per contrapporsi alla decadenza di un “Continente triste e ormai prossimo alla morte”. Con lucida preveggenza, Roth seppe leggere nelle contraddizioni e nei tormenti della sua epoca quei germi di violenza e di nazionalismo esasperato, che gettarono in breve tempo la Germania nelle braccia del nazismo e condussero l’Europa alla tragedia della seconda guerra mondiale.
Ancora oggi “le città bianche” incantano con la loro bellezza arroccata fra le rocce, incorniciate dal verde intenso delle colline; e la gente passeggia senza meta fra i dedali di stradine interrotte da piazzette improvvisate, dove cercare rifugio dal grande via-vai del turismo di massa: i profumi intensi e gli odori aromatici dei mercati provenzali rammentano antichi sapori e felicità. Il mercato dei fiori è un rito a cui non sottrarsi.

Nella notte del 14 luglio, mentre il cielo s’illuminava di fuochi pirotecnici multicolori, la volontà assassina di un islamismo dalle mille facce si è gettata con vigliacca determinazione sulla folla in festa, per distruggere quel che resta di questo nostro vivere occidentale e tranciare di netto i valori irrinunciabili di libertà, legalità e laicità, che proprio la Francia con la sua rivoluzione del 1789 e con la filosofia dell’Illuminismo ha introdotto in Europa. Oggi, questi orizzonti culturali sono in pericolo, come tutti noi che crediamo in una visione razionale della vita, ma con ormai il tarlo della paura, anzi del panico che ci ronza nella testa e non ci fa sentire tranquilli a casa nostra.

“Attentato di Nizza, Dio esiste e pesa 19 tonnellate”: è la copertina amara del giornale satirico Charlie Hebdo. La mattanza nella loro redazione di Rue Nicolas Appert era piombata il 7 gennaio 2015, sfondando la porta blindata a colpi di kalashnikov. I vignettisti e i giornalisti assassinati avevano la “colpa” di raccontare i fatti del mondo col sorriso e l’ironia graffiante, con l’irriverenza verso tutti i conformismi. Wolinsky, il grande disegnatore dall’animo gentile, con la freschezza dei suoi 80 anni era il più vecchio tra loro. Di lui restano, oltre ai libri di racconti per immagini, la sua gioiosità, la sua saggezza, che gli facevano dire: “L’umorismo è etica, un’attitudine dello spirito, un qualcosa in più che si ha o non si ha. Un umorista non è mai un laido, perché l’ironia implica una lucida visione sulla proprio epoca, sa svelare tutte le menzogne”. E ora che la Ragione è messa in gelatina, la copertina di Charlie, a firma di Riss, su sfondo rosso sangue celebra un ghignante Sarkozy, definendolo “un candidato all’altezza”, saltellante su una montagna di cadaveri, con ai lati due palme.

La paura si avverte qui a Parigi, anche se la vita in città scorre come sempre e le “terrazze” dei bar sono affollate. E’ irrinunciabile, per chi ci vive o è in visita alla “ville lumiére”, un bicchiere di Kir, di vino, di birra, sul far del tramonto: si parla di tutto e nulla seduti ad un tavolino per “prendersi il proprio tempo”, come si dice qui. Impossibile non godersi una passeggiata sul lungo Senna verso l’Ile Saint-Louis, con la silhouette di Notre Dame a far da riferimento. Nonostante le capillari misure di sicurezza, ci si avventura lungo i Quais, che ospitano la tradizionale manifestazione estiva “Paris plages”. Un modo semplice e bello di vivere l’estate in città, con gli ombrelloni, le sdraio e le spiaggette di sabbia inventate ai bordi del fiume, dove abbronzarsi non è un lusso per pochi, ma una libertà gratuita per tutti.
Le giovani vittime del Bataclan e dei bar confinanti, fra l’11° e il 16° arrondissement, non riposano in pace; le ferite dei sopravvissuti grondano ancora sangue e dolore e ci si domanda con apprensione: “quando e dove” la barbarie colpirà di nuovo? Non c’è tregua!
Sì, siamo dentro un terribile scontro di civiltà fra chi crede alla vita, alla sacralità dell’essere umano, alla pietas, alla solidarietà e chi, invece, pensa solo alla morte, covando un odio implacabile contro tutto e tutti. Per loro il “nemico giurato” è l’Occidente, che pure li ha accolti da più generazioni. Ci saranno molte pecche, ma qui in Francia, basta prendere la metro e recarsi nelle banlieu, parlare con le persone di ogni estrazione sociale e culturale, per capire che l’emarginazione è a volte una scelta voluta, una ribellione permanente. Un vittimismo deformante, che rende il richiamo jihadista una fascinazione a portata di mano, che si nutre di alienazione, che cresce fuori dalla grande moschea e corre veloce sul WEB.

L’editoriale di Gérard Biard sull’ultimo Charlie punta il dito sul primo dovere dello Stato, “che è quello di garantire la sicurezza dei suoi cittadini. Particolarità del terrorismo denominato Daech è che non può che rivelare delle falle. Daech non offre un metodo e neppure una visione, offre un’ideologia. Certamente si fonda su una natura ben determinata: religiosa e totalitaria. Ma presenta l’enorme vantaggio di adattarsi a tutte le possibilità individuali, a tutti i profili e a tutti i candidati suscettibili di lasciarsi tentare da quel Paradiso che promette. Non è necessario far parte di una rete, sono sufficienti alcune cattive frequentazioni”.

Avvertiamo una sorta di caos mentale intorno a noi, una spiacevole sensazione di sudditanza, un’ostinazione ad appiattire le nostre ricchezze culturali e la nostra visione critica della realtà, in nome di una “uguaglianza” promiscua, unilaterale, un affannoso sporgersi sempre più dalla finestra per allungare le mani a chi non è affatto intenzionato a stringerle. Ed è tutta una gara continua verso il politically correct, che alla lunga diventa stucchevole, arrendevole. Non registriamo, al di là delle rammaricazioni di rito da parte delle comunità musulmane, una denuncia netta di quelle potenziali frange terroristiche dormienti. In questi terribili giorni sono anche comparse sui blog espressioni di condivisioni per il “Sultano” Erdogan, in difesa di un presunto ristabilimento della democrazia.
C’è una “rivoluzione etica e morale” che dobbiamo esigere dal mondo musulmano e che rafforzerà tutta quell’ala laica, moderata e secolarizzata degli islamici che si sono integrati in Europa e in America e che sta soffrendo le oppressioni della sharia in Oriente: rifiutare l’ambiguità dottrinale, storica, dell’interpretazione del Corano. Mai Sunniti e Sciiti hanno dato vita, pacificamente, ad una revisione delle loro antagonistiche scuole di pensiero, procurando lutti tra loro e terrorismo in Occidente. L’Islam deve iniziare un percorso di “laicizzazione” della propria religiosità. Ancora brucia a molti di noi che la nostra tradizionale creatività e amore per l’arte e la bellezza siano stati ridicolmente inscatolati per non recare disturbo visivo ad un ospite importante in visita amichevole e commerciale dall’Iran. Ma insomma, temere che la splendida Venere capitolina, col suo candore marmoreo millenario potesse esercitare una così dannosa fascinazione, incrociando lo sguardo del presidente iraniano Hassan Rouhani, ci fa pensare che più delle statue siano stati oscurati i nostri valori.

Dobbiamo, quindi, chiederci se non sia giunto il momento che anche il sistema capitalistico e finanziario mondiale, colpevole di una crisi senza precedenti, non debba attuare una propria “rivoluzione culturale, etica”. I maggiori paesi arabi del Golfo, le tirannie oligarchiche e fondamentaliste sono tra i maggiori investitori finanziari e imprenditoriali nell’Occidente: controllano gran parte dei debiti pubblici dei paesi più industrializzati; sono i maggiori azionisti di grandi banche, compagnie aeree, reti televisive satellitari e online; sono entrate nel business delle più importanti squadre di calcio, ciclismo, Formula Uno. Se vogliamo togliere l’acqua sotto i piedi al terrorismo e bloccare i finanziamenti alle guerre dei Califfati e agli attentatori delle “cellule dormienti”, dobbiamo ottenere da questi “potentati finanziari” arabi un’abiura ufficiale. Anche il loro sistema capitalistico deve osservare “leggi etiche”, così come l’Occidente deve rigenerarsi nel suo modo di fare affari.

Siamo coinvolti nostro malgrado in una guerra anomala, terroristica, che non abbiamo mai dichiarato a nessuno, ammantata di furore religioso. La questione, oltre che culturale, basata sull’integrazione, va posta anche sul lato economico, sugli interessi del “ventre agiato” delle élite arabe. Solo allora si potrà pensare ad una coesistenza inclusiva tra Occidente e Oriente.


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