A 77 anni, solo e in bassa fortuna economica, fuori da quello star system che non gli ha mai perdonato il successo e la caduta, la genialità e l’irregolarità, è morto Michael Cimino, il più visionario della nidiata dei registi americani di origine italiana che negli anni 70 cambiarono il volto di Hollywood. Non è un caso che l’ultimo omaggio gli sia stato reso da un festival europeo (Pardo d’onore a Locarno nel 2015) e che l’annuncio della morte sia stato dato dal direttore del Festival di Cannes, Thierry Fremaux.
Nato a New York il 3 febbraio 1939 da genitori piccolo borghesi immigrati dalla Sicilia, il giovane Michael nutre, con talento, passione varie forme di arte. Studia architettura, musica, letteratura, ma trova la sua prima vocazione nella pittura, che praticherà per tutta la vita esponendo in gallerie di sempre maggior prestigio.
Dopo un breve periodo sotto le armi nel cuore del dramma vietnamita, riesce a tornare alla vita civile, lavorando per la tv e la pubblicità. Frequenta anche l’Actors Studio, con compagni come Al Pacino, Dustin Hoffman, Meryl Streep. Nel ’71 sbarca a Hollywood. Clint Eastwood garantirà per lui, permettendogli il debutto come regista appena tre anni dopo. Al secondo film il trionfo: «Il cacciatore», trionfatore agli Oscar del 1978.
Per onorare la memoria di Cimino proponiamo un breve saggio di Danilo Amione, scritto lo scorso anno per la nota rivista “Cinemasessanta”
di Danilo Amione
Michael Cimino,il grande regista newyorchese di origine italiana autore di alcuni capolavori del cinema di ogni tempo , è un artista che analizza la realtà attraverso il complesso rapporto tra uomo, natura e cultura, inteso sia in senso metaforico che narrativo. La necessità di collocare in grandi spazi le sue opere si evidenzia già nel suo primo film “Una calibro 20 per lo specialista”, ’74, dove i due protagonisti fuorilegge Clint Eastwood e Jeff Bridges si muovono per le loro scorribande da un luogo all’altro, e nel Montana , dove è ambientato il film, i luoghi non sono tanto le città quanto le strade e le autostrade che le circondano, immerse in una natura ancora incontaminata non per scelta ma perché è lì che finiscono i loro confini. Il rapporto “primario” padre figlio che si instaura fra i due deriva la sua essenza proprio da questa dimensione naturale, non borghese dell’ambiente che li circonda.
L’agonia finale di Jeff Bridges, così struggente e coinvolgente da entrare in conflitto con il principio baziniano per cui è impossibile se non esteticamente deleterio filmare la morte, racchiude in sé l’arcaicità che accompagna tutto il film di Cimino, carico di sentimenti semplici, alla John Ford, come speranza, riscatto, illusione e delusione. Persino la scuola dove i due approdano alla ricerca del bottino lì nascosto,diventa luogo di un passato ormai irraggiungibile,simbolo di un’infanzia fagocitata da un mondo violento e spietato in cui il capitale ha azzerato tutto, collocando i personaggi, l’uomo, fuori da una dimensione temporale che non sia soltanto il presente, unica coniugazione confacente al denaro. Questo discorso sul tempo, sui luoghi naturali, sulla condivisione umana di un mondo in piena deriva, si amplifica fin quasi a dirompere nel secondo film di Cimino “Il cacciatore” ’78, apoteosi della New Hollywood, premiato con 5 Oscar, e viatico alla fama imperitura e meritata per il suo autore.
I protagonisti sono cinque amici di cui tre, De Niro, Walken e Savage, in procinto di partire per il Vietnam. Operai in una acciaieria, si dilettano nella caccia al cervo e l’alternarsi delle scene della fabbrica con quelle degli immensi spazi naturali diventa il modo per Cimino per fare intendere allo spettatore quanto l’uomo si sia costretto ad allontanarsi dalla libertà naturale che un tempo gli apparteneva. L’inquadratura con il cervo che guarda in direzione del mirino del fucile di De Niro, resterà come una delle cose più belle che il cinema ci abbia mai regalato. In questo solo quadro Cimino ha messo insieme fierezza e possenza della natura, tempo umano e ritorno, purtroppo soltanto temporaneo, verso una dimensione di appartenenza a se stesso che la contemporaneità non contempla più. La sospensione temporale che ne viene fuori sembra magica, impalpabile, al punto da farci sperare che non finisca mai.
L’approdo dei tre nell’inferno del Vietnam, ribalta genialmente questo rapporto con l’arcaico. La giungla, gli agguati ad essa connessi, la follia che scatena chi combatte in una trappola senza vie d’uscita, allontana lo spettatore dalla natura, in una contrapposizione con quanto visto in precedenza, che Cimino mette in campo volutamente per dirci quanto sia l’uomo a regalarsi “un’altra natura” frutto di una scelta ancora una volta dichiaratamente storica, dialettica, di conquista e predominio. E non tragga in inganno, come capitò all’uscita del film, il patriottismo ostentato dei protagonisti.
Cimino lascia che il racconto si svolga inconsapevole in terza persona proprio per rimarcare ancora più fortemente la disponibilità dei protagonisti ad una vita semplice, serena, cui si contrappongono scelte alle quali nessuno di loro ha la forza o “soltanto” la cultura per opporsi. E’ Il potere che si approfitta di chi vi crede,una fisiologia perfetta che Cimino mette in campo in maniera quasi geometrica,illuministica,contrapponendola al barocchismo con cui racconta la follia della guerra(vedi la oramai celebre sequenza della roulette russa).Lo stesso regista in un’intervista del 2003 a Dario Zonta per L’Unità affermò testualmente: ” Comunque, chiunque tratti il tema della guerra, scrittore o cineasta, crea automaticamente un’opera contro la guerra.E’ il tragico che decide”.
Il finale di questo film non è da meno del precedente, con De Niro che va a trovare in ospedale il compagno reso folle dagli orrori della guerra. La capacità di Cimino di inoltrarci dentro l’inferno vietnamita è stato tale che ognuno di noi spettatori è come se fosse lì ad accompagnare l’amico in questa assurda e commovente visita. Un 3D mentale molto più forte di qualsiasi altro 3D visivo. Il discorso dell’uomo immerso nella storia ritorna prepotentemente nell’opera successiva del regista newyorchese, l’epopea western”I cancelli del cielo”, ’80, autentico testamento spirituale e opera dalle mille sfaccettature genialmente incastrate le une sulle altre.
Tale complessità è esplicitata in una durata da director’s cut di oltre 5 ore ridotta dai produttori a 3 ore e 39 minuti e poi, dopo il flop nelle sale, a 2 ore e 29 minuti che non evito il fallimento della United Artists, che incassò solo un milione e mezzo di dollari contro i 44 investiti nella produzione. Questa immensa opera rivela un Cimino pronto a ribaltare i grandi miti di sempre dell’America reale e per riflesso di quella hollywoodiana. Atto finale,insieme al coevo “Toro scatenato”di Scorsese, di quella grande stagione del cinema statunitense che fu la New Hollywood, ”I cancelli del cielo” racconta delle lotte dei contadini immigrati contro gli allevatori di bestiame appoggiati dal governo centrale. Il film è la messinscena della fine del sogno americano così come era stato tramandato per secoli e l’avvio potente di una rilettura delle radici del capitalismo americano visto marxianamente come frutto di una violenta accumulazione primigenia a danno dei più deboli. Anche la terra, la natura, è vista simbolicamente come elemento distintivo delle classi in conflitto:sfruttata dai proprietari terrieri per farvi pascolare il bestiame,vissuta come elemento vitale dai contadini.
La figura dello sceriffo, interpretato da uno straordinario Kris Kristofferson, da sempre vista dalla parte della legge costituita, viene qui assimilata simbolicamente al difensore strenuo dei diritti violati dei subalterni pronti a combattere fino alla morte. La battaglia finale dei rivoltosi contrapposti ai killer super armati ingaggiati dai possidenti rimane una pietra miliare del cinema di ogni tempo per il controllo dell’immagine capace di raccontare un massacro di massa e insieme l’esaltazione del coraggio individuale sospinto da principi morali irrinunciabili. Il lirismo sprigionato da Cimino in questa lunghissima sequenza dalla durata coraggiosa di oltre un’ora diventa sommatoria delle lezioni del Griffith di “Nascita di una nazione”(‘15) e “Intolerance”(‘16). La polvere che accompagna il combattimento sembra stendere come un lenzuolo bianco sui corpi dei contadini abbattuti da una violenza inusitata e spaventosa, essa stessa simbolo di un paese costruito sulla prepotenza e la sopraffazione. I corpi martoriati dei rivoltosi sembrano moltiplicare a dismisura quelli di Bonnie e Clyde nel finale di “Gangster story”di Arthur Penn(’67). Rimandi significativi ad un cinema contro che l’establishment americano non solo hollywoodiano saprà riportare all’ordine in breve tempo. Proprio Cimino sarà uno di quelli che pagherà a caro prezzo queste scelte coraggiose.
”I cancelli del cielo”, prima di essere riabilitato nella sua versione originale dalla critica internazionale come uno dei migliori film della storia del cinema, subirà anche l’offesa di essere “premiato” con il “Razzie Award” come peggiore film dell’anno negli Usa. Soltanto cinque anni dopo Cimino tornerà dietro la macchina da presa con “L’anno del dragone”, un film noir che sembra inseguire imprendibili fantasmi metropolitani in una Chinatown prepotente metafora di un mondo sempre più privo di logica umana la cui unica ragione risiede nel dio denaro. Significativamente strumentali gli attacchi che il film ricevette da tanta stampa conservatrice americana che lo tacciò di razzismo. Non perché esso non offra occasioni di critica in tal senso, anzi, ma proprio perché mai la stessa stampa americana si era così tanto preoccupata in altre situazioni di evidenziare tale problema. Il film segna il congedo del regista newyorchese dalla grande ispirazione.
”Il siciliano” di due anni dopo, assimilabile alla figura di Salvatore Giuliano, sembra legarsi troppo ad un immagine storicamente falsa e pericolosamente stereotipata del bandito di Montelepre, seppure in valore assoluto Cimino lo faccia paladino dei diritti dei più deboli e vittima del potere all’interno di un gioco più grande di lui,rimettendo così in campo temi a lui cari. Del ’90 è “Ore disperate”, stanco remake del film di Wyler del ’55, già di per sé non il capolavoro che molti avevano vantato. Ad oggi l’ultimo film di Cimino è “Sunchaser-Verso il sole”, un film del ’96 che ribadisce l’interesse del regista per il rapporto uomo-natura. Ancora una volta al centro del film è un perdente, nella figura di un nativo navajo condannato alla prigione ma ancor più da un male incurabile. Sequestrato il medico che lo ha in cura, si farà portare da questi a morire nei suoi luoghi d’origine, dove la natura, dai deserti dell’Arizona e dello Utah fino alle montagne del Colorado, regna sovrana lontana dalla “contaminazione” della società contemporanea.
Un tema questo che Cimino aveva saputo affrontare decisamente meglio anni prima. Un altro finale coinvolgente, con il medico che capirà e condividerà la scelta del paziente, è forse la cosa migliore di questo film che mostra tante buone intenzioni ma scarsa capacità realizzativa. Cimino,dunque,da quasi vent’anni non gira più, scrive romanzi che ad oggi non hanno mostrato gli acuti che il suo primo cinema ha saputo regalarci. Sicuramente il venir meno dell’ispirazione,come per tanti altri suoi colleghi non solo americani, ha contribuito al suo eclissarsi dal set,ma certamente Hollywood per l’ennesima volta non è stata tenera con chi ne ha scosso le fondamenta,facendola tremare.