Esattamente dieci anni fa, in seguito alla risicata vittoria dell’unione di Prodi alle Politiche, mai davvero riconosciuta né tanto meno accettata dai berlusconiani, Paolo Franchi vergò sul “Corriere della Sera” un editoriale che mi è tornato in mente osservando le convention andate in scena in America, rispettivamente a Cleveland e a Philadelphia, nelle ultime due settimane.
Mi è tornato in mente soprattutto il titolo di quell’analisi: “Le due Italie divise e nemiche”, il cui sviluppo era sostanzialmente questo: in Italia, ormai, non esistono più due schieramenti contrapposti che si fronteggiano, si sfidano a viso aperto, litigano pressoché su tutto ma fondamentalmente si rispettano e si riconoscono in una cornice di valori condivisi, ossia quelli che innervano la Costituzione, bensì due compagini che si detestano senza cordialità, si disprezzano senza infingimenti e reputano l’affermazione dell’altro alla stregua di un’usurpazione, di un’ingiustizia, di un dramma al quale porre fine in tutti i modi e nel più breve tempo possibile.
Il tratto in comune fra noi e gli Stati Uniti è la presenza di un’anomalia nel sistema politico: da noi all’epoca era Berlusconi, da loro adesso è Trump, simili per biografia e per ricchezza, divisivi come non mai e pericolosi per la tenuta dell’assetto istituzionale, non solo per le loro azioni quanto, più che mai, per le conseguenze delle medesime sulla tenuta del sistema democratico e per le lacerazioni che esse comportano nel paese, devastandone progressivamente il tessuto sociale.
Ci illudevamo, all’epoca, che il berlusconismo e un certo approccio alla cosa pubblica fossero un tratto caratteristico dell’Italia, una degenerazione legata alla particolarità della nostra storia recente e al fatto che, sostanzialmente, siamo una democrazia giovane e ancora alquanto immatura, senza cogliere, ahinoi, il portato epocale di questo degrado complessivo della politica e della classe dirigente che la compone.
Non consideravamo, evidentemente, che già il bushismo costituiva, di per sé, una concezione alquanto cialtronesca della democrazia e del potere, con i suoi eccessi, i suoi punti oscuri, la sua pessima gestione di tragedie come l’uragano Katrina, la propensione guerrafondaia e la tendenza a porre in posizioni di primo piano figure estremamente discutibili, talvolta addirittura ridicole, le quali hanno fatto la fortuna di polemisti di fama internazionale quali il regista Michael Moore.
E così, nell’anno in cui ricorre il duecentoquarantesimo anniversario della Guerra d’indipendenza dalla madrepatria inglese, assistiamo ad un’America fragile e in conflitto con se stessa come nemmeno negli anni immediatamente successivi alla tragedia dell’11 settembre: e non per colpa di Obama, come vanno ripetendo strumentalmente i repubblicani, bensì per via di una crisi economica che, pur essendo stata gestita al meglio dall’amministrazione democratica, ha prodotto conseguenze preoccupanti e provocato strascichi destinati a riverberarsi e a condizionare l’esito di questa campagna elettorale.
Basti pensare all’incertezza che regna sovrana nella classe proletaria e nell’ex ceto medio, impoverito e terrorizzato dall’ascesa sociale di ispanici e afroamericani, con la concreta possibilità, anzi la certezza, di divenire a breve minoranza, dopo un secolo e mezzo di dominio bianco, corredato per circa un secolo dalla segregazione razziale e dalla discriminazione sistematica nei confronti dei neri, dovuta ai pregiudizi e alla linea di faglia interna costituita dalla “color line”. Basti pensare alla rabbia anti-intellettuale che ha caratterizzato l’opposizione repubblicana alla presidenza Obama, con la trasformazione dei repubblicani in una sorta di partito populista, più simile all’UKIP di Farage o al Front National di Marine Le Pen che al GOP di Nixon, di Reagan o di Bush senior.
Basti pensare al fatto che Reagan parlava di “mattino in America”, tracciava un programma all’insegna dell’ottimismo e formulava proposte economiche e sociali che andarono a comporre un quadro complessivo che indusse alcuni osservatori a parlare di “edonosmo reaganiano”; la recente convention di Cleveland, al contrario, è stata contraddistinta da chiusure d’ogni sorta, da un pessimismo cupo, dall’esaltazione dei timori dell’America profonda e da una bocciatura senza appello dell’amministrazione democratica, con toni degni di un raduno di esponenti del Ku Klux Klan più che di un normale partito conservatore occidentale.
Talmente è anomala la fase storica che stiamo attraversando che sono stati i democratici a dover rilanciare alcuni valori cardine della società americana e alcuni princìpi tipici del suo pensiero politico, quali l’invito all’ottimismo, l’esortazione a credere in se stessi e a ritrovare l’audacia della speranza (cavallo di battaglia obamiano fin dalla convention di Boston del 2004 nonché suo slogan di punta alle Presidenziali del 2008 e del 2012), fino alla saggia citazione rooseveltiana formulata dalla Clinton: “L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”, come spiegò il presidente del New Deal a un’America sconvolta dalle conseguenze della Grande Depressione scoppiata nel ’29.
Da una parte l’odio, il rancore sordo e il desiderio di distruggere tutto o quasi; dall’altra la rivendicazione dei risultati conseguiti, l’invito a non cambiare rotta e la coscienza di un’America colta e benestante, fiera di sé e della posizione sociale raggiunta, pronta a tendere la mano a chi sta peggio, anche grazie al programma sociale imposto da Sanders nella definizione della piattaforma del partito, e priva della rabbia che attraversa invece l’anima profonda del paese. Ed è qui che potrebbe configurarsi una grande affermazione, figlia di una scommessa sul domani, o, al contrario, un’atroce e drammatica sconfitta, dovuta alla marea montante del risentimento che sta travolgendo le nostre democrazie,
Perché l’America che ha trovato udienza a Cleveland, al netto della freddezza di Cruz, dell’assenza di alcuni maggiorenti del partito e dello scetticismo che attornia Trump anche nelle file del GOP, l’America che ha scelto di puntare sul miliardario newyorchese non vede in lui un simbolo della classe lavoratrice, un difensore dei diritti umani o un benefattore in grado di condurre il paese fuori dalle secche dello sconforto e della perdita di prestigio mondiale legata al multipolarismo affermatosi con forza nell’ultimo decennio bensì come l’uomo adatto a far saltare il sistema e a impartire una dura lezione alle élites responsabili del disastro cui abbiamo assistito negli ultimi vent’anni. Essi vedono in Hillary Clinton la perfetta moglie dell’uomo che, abolendo il Glass-Steagal Act rooseveltiano, ha contribuito in maniera decisiva alla trasformazione delle banche in agenti al servizio della finanza speculativa, ossia del principale responsabile della crisi del 2008; una candidata ricchissima e sprezzante, capace di presentarsi a un dibattito sulla povertà con indosso un abito di Armani da oltre dodicimila dollari; una personalità ambigua, centrista e terzaviista nell’animo ma, soprattutto, lontana dalla tragedia dei giovani che escono dall’università e non trovano lavoro e dalle esigenze di quei “millennials” che si erano aggrappati a Sanders con l’auspicio che l’anziano senatore del Vermont potesse contribuire a rimettere in funzione l’ascensore sociale che si è bloccato da almeno una quindicina d’anni.
L’America di Philadelphia è un’America che arriva senza patemi d’animo alla fine del mese, che può permettersi il lusso di volgere lo sguardo alle tematiche globali, non avendo particolari problemi interni di cui occuparsi, che si concentra giustamente sul tema dei diritti civili e sull’ampliamento dei diritti affinché essi si tengano per mano, il che è bellissimo ma genera dubbi e sospetti agli occhi di quanti in questa rappresentazione del benessere e in questo slancio sereno verso il futuro non riescono a riconoscersi, proprio come non riescono più a prendere sul serio chi parla loro di “sogno americano” e della possibilità che ogni singola speranza si trasformi in realtà.
In poche parole, spiace dirlo, ma imitando le campagne elettorali di Obama e, peggio ancora, di suo marito, Hillary ha altissime probabilità di perdere: perché non è Obama, non ha quella storia e come paladina degli ultimi e dei deboli è assai meno credibile e perché non siamo nei ruggenti anni Novanta, quando ancora ci si illudeva che il sereno vento dell’ovest che aveva preso a spirare dopo l’89 potesse durare per decenni, con la “fine della storia” e la vittoria definitiva del sistema capitalista. Non è andata così, non poteva andare così e siamo stati sciocchi a credere alla miriade di scemenze che ci sono state ammannite per anni, fino a quando il liberismo selvaggio non è imploso su se stesso e non ha mostrato, sotto forma di fallimenti, lacrime e disperazioni varie, il vero volto della sua barbara dottrina.
Non a caso, saggiamente, nel discorso di accettazione della nomination, al cospetto di un Trump che minaccia scenari da disfamondo e continua a soffiare sul fuoco delle false chiusure identitarie, in un Paese provato dal riacutizzarsi della violenza, della diffusione indiscriminata delle armi e della questione razziale, saggiamente la Clinton ha pronunciato il discorso più di sinistra della sua vita, strizzando l’occhio a quell’universo liberal che nei giorni precedenti aveva bistrattato, scegliendo come suo vice il centrista e retrogrado Tim Kaine.
Basterà questa coraggiosa svolta di Lady Terza Via per convincere l’elettorato più riluttante, e in particolare i giovani, a non compiere il salto nel buio costituito dal trumpismo e a non lasciarsi andare al nichilismo rappresentato dalla diserzione delle urne? Basterà quest’ennesima maschera a una donna che da circa trent’anni manifesta ambiguità d’ogni genere e cambia atteggiamento e posizioni a seconda delle convenienze del momento?
Infine, ora che Hillary sembra aver capito come funziona e com’è fatta l’America del 2016, sarà quest’ultima disponibile a fidarsi ancora di una donna che trasuda Novecento da tutti i pori? Sia pur con il dovuto scetticismo, c’è da auspicarsi di sì: per il bene dell’America e dell’umanità.