La guerra c’è, dai fronti di battaglia aperti dal cosiddetto Stato Islamico in Mesopotamia, tra Siria e Iraq, agli episodi del più odioso terrorismo in Francia e in Germania. E’ una coniugazione di ferocia indotta anche per calcoli di marketing politico, direbbe Carl Philip Von Clausewitz se fosse vivo e potesse studiarla come ha fatto con quelle napoleoniche. L’intera Europa è a questo punto in allarme permanente. Ma è una guerra essenzialmente inter-islamica, ben poco a che vedere con il presunto scontro di civiltà. Siamo piuttosto coinvolti in uno scontro di poderosi interessi -non esclusivamente islamici- e odii arrugginiti nei secoli.
Recitiamo con John Donne: ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità… E insieme al sacerdote cattolico sgozzato in Normandia, ai passeggeri accoltellati sul treno tedesco a Wurzburg, ai nove innocenti fatti saltare in aria a Monaco di Baviera, agli italiani e alle altre vittime di Dacca, ai 12 feriti dall’esplosione di Ansbach, presso Norimberga, alla carneficina lungo la promenade des Anglais a Nizza, solo per citare i più recenti, ricordiamo i 50 morti e 200 feriti siriani mandati in pezzi da una bomba alla frontiera con la Turchia, il massacro al mercato di Bagdad e quello di Istambul, la strage degli hazara sciiti in piazza Deh Mazang, a Kabul: 90 morti e 200 feriti.
Sono decine e decine di migliaia le vittime musulmane di questa guerra musulmana intessuta di connivenze ed errori occidentali. Cadono ogni giorno da anni su tre continenti, dalla Nigeria africana all’Oriente Medio e all’Asia del Sud-Est. Affollano le interminabili colonne di profughi che premono e penetrano nell’Unione Europea, infiammandone limiti e contraddizioni, facendone vacillare le istituzioni. L’orrore e l’indignazione di tanta opinione pubblica spingono ormai anche somme autorità islamiche alla condanna del terrorismo, che tuttavia -non dimentichiamolo- è solo un volto, sebbene terribilmente bieco, dello scontro guerresco e socio-economico.
In Italia e in Francia le comunità islamiche si espongono adesso a condannare apertamente il terrorismo. Il rettore della massima moschea di Parigi, Dalil Baubakeur, dice di più: sono necessarie e urgenti riforme che migliorino la formazione del nostro clero, della visione generale dell’Islam, della protezione dei luoghi di culto d’ogni fede: dobbiamo superare le contraddizioni tra i diversi valori. E il rettore dell’antica università Al-Azhar, lo sheik Mohammad Ahmad Al-Tayyib, condanna dal Cairo gli assassini di Rouen che si sono “spogliati dell’umanità e dei principi di tolleranza dell’Islam che deve predicare la pace e rispettare gli innocenti”.
Non è difficile cogliere ancora delle ambiguità in queste parole. Al dialogo tra cattolici, ebrei e musulmani che dal prossimo autunno riprenderà con maggiore convincimento in Vaticano il compito di superarle. Ma intanto a richiamare l’attenzione è il silenzio contrapposto dall’Arabia Saudita, protagonista maggiore e crocevia dello sconvolgimento internazionale in atto: la più pericolosa polveriera della regione. Quest’affermazione è del Bundesnachrichtendienst (BND), lo spionaggio della Repubblica Federale Tedesca, il BND, che con un documento reso eccezionalmente pubblico alla fine dello scorso anno (Indipendent, Londra, gennaio 2016) e di recente aggiornato, attribuisce al governo di Riyad “un’impulsiva politica intervenzionista”.
Il BND ricorda lo scontro dell’Arabia Saudita con gli Stati Uniti nella guerra del petrolio che ne ha fatto precipitare il prezzo internazionale, anche in ritorsione per la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Washington e l’Iran degli ayatollah sciiti. Le esecuzioni capitali di oppositori interni del febbraio scorso a Riyad, l’intensificazione della politica militare che ha portato nello Yemen alla guerra aerea contro il movimento sciita Houthi e al sostegno in Siria di gruppi combattenti accanto al Califfato, contro il governo di Damasco. Sempre facendo ricorso senza alcuno scrupolo al più settario nazionalismo sunnita.
La svolta dalla tradizionale cautela all’avventura secondo i servizi segreti tedeschi è avvenuta dopo la morte di re Abdullah e l’insediamento nel gennaio 2015 del successore, re Salman, vecchio e affetto da una forma avanzata di demenza senile. Egli ha nominato ministro della Difesa il figlio prediletto, il principe Mohammad bin Salman, 29 anni, definito nel documento “un inesperto e spericolato arrogante che ama giocare con il fuoco”. La militarizzazione della politica estera saudita ha ulteriormente destabilizzato la regione, senza portare finora ad alcun risultato concreto, salvo quello di servire al principe Mohammad per consolidare il suo potere in seno al governo e nella linea di successione al padre.
Il quadro è complesso e interseca fattori economici, politici e culturali attraverso diversi continenti. Anche quando non vengono esaltate dal clamore di una retorica niente affatto fine a se stessa, s’avvertono soprattutto nella vicenda della guerra islamica richiami storici di forte peso simbolico (peraltro talvolta contraddittori). Fino a prova contraria, si tratta però assai più di mezzi che di fini. Mentre sullo sfondo è evidente una sfida a tutto campo tra potenze globali e regionali per una ridistribuzione mondiale delle sfere d’influenza e dei mercati di materie prime. Non è casuale che l’alleanza storica tra Washington e Riyad entri in crisi quando grazie al fracking gli Stati Uniti arrivano a disporre di riserve petrolifere superiori a quelle saudite.