BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

In Turchia, fallito il putsch militare, ora Erdogan ha mano libera per ottenere tutti i poteri da “autarca”.

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E così l’alba ci ha riconsegnato una Turchia “normalizzata”, con i militari putschisti arrestati, l’ordine ricostituito e il “padre padrone” dal 2003 della potenza euro-asiatica, Erdogan, ancor più saldo al potere. Troppe le divisioni, questa volta, in seno alle forze armate, già di per sé esautorate da Erdogan agli alti vertici con la nomina di generali a lui fedeli, perché il movimento golpista attecchisse in poco tempo tra le guarnigioni e nell’opinione pubblica, frastornata da tempo sia dal regime autocratico del “moderno satrapo” turco, sia dagli attentati terribili, dalle censure di giornali e televisioni, dagli arresti di giornalisti, intellettuali e oppositori, dalla stessa crisi economica che spinge turchi e curdi a fuggire in Europa o in America.

Erdogan dalla sua parte ha subito avuto la solidarietà dei partner occidentali che contano: Stati Uniti, Russia, Germania, la Nato, Israele. Resta sospetta la regia di questo putsch così rapido nella sua esecuzione e altrettanto evanescente nella disfatta. Forze armate così ben addestrate, in guerra da anni con i Curdi e l’Isis, che si lasciano sconfiggere quasi senza colpo ferire dalle forze di polizia in un pugno di ore. Pochi morti per le strade, soprattutto civili, qualche centinaio di arresti tra l’esercito ribelle, colonnelli (e non generali) fermati e destituiti. Lo stesso Erdogan che si fa intervistare da una località segreta con uno smartphone e che vola sui cieli turchi, richiedendo aiuto e asilo politico agli alleati europei, sembra il copione di un film hollywoodiano di seconda serie. Con il corollario di incitare la gente a scendere in piazza disarmata per “difendere la democrazia”!

Sta di fatto, che ora Erdogan è diventato il più potente “dittatore democratico” del Medio Oriente, l’alleato indispensabile, che potrà dire la sua al tavolo della futura e probabile spartizione delle sfere di influenza della zona, una volta sconfitto militarmente il Califfato di Daesh, quando si dovrà ridisegnare confini ed enclave religioso-etniche.

Potrà, senza più proteste e ritrosie occidentali, proseguire nella sua opera di islamizzazione dello stato laico turco, emarginare le donne con l’imposizione “moderata” della sharia, ridurre al silenzio le opposizioni, cancellare i sogni d’indipendenza del popolo curdo, mostrare il pugno duro sui media tradizionali e online, senza più dover rispondere alle fugaci critiche dei partner, ormai prostrati dalle sue continue giravolte. Chiedere agli Stati Uniti la testa del suo più forte ed odiato avversario, l’imam moderato Fethullah Gulen, che vive da anni in esilio in una località segreta americana e ottenerne l’estradizione, perché ritenuto l’ideatore del fallito putsch del 16 luglio.

La Turchia, un tempo baluardo euro-asiatico contro il fondamentalismo islamico, il paese più laico e democratico rispetto alle dittature mediorientali e alle monarchie oscurantiste del Golfo, si trova così ad affrontare un nuovo stravolgimento del proprio sistema. E questo accade, proprio quando il “padre padrone” Erdogan ha messo in atto un’inversione di tendenza nella politica estera: abbandono formale delle mire espansionistiche contro la Siria di Assad; presa di distanza dall’operato del Califfato dell’Isis, prima segretamente foraggiato; sospensione della complicità con le organizzazioni mafiose locali che gestiscono il traffico dei migranti (grazie al quale ha ottenuto parecchi miliardi dall’Unione Europea). E, soprattutto, un riavvicinamento con la Russia di Putin, dopo le tante frizioni, culminate con l’abbattimento del Mig russo e le reciproche accuse di oscuri commerci di petrolio e armi con il coinvolgimento della famiglia dello stesso Erdogan. Infine, la ripresa della collaborazione con Israele, dopo alcuni anni di frizione diplomatica e militare.

Scusatosi pubblicamente con Putin per l’uccisione dei due piloti russi, Erdogan ha poi rafforzato la sua presenza militare insieme alla Coalizione, guidata dagli Stati Uniti e, in parte, ha accettato la nuova politica geostrategica di Obama, che ha deciso di fornire aiuti e mezzi agli “odiati” Curdi, in prima fila proprio nella battaglia campale contro l’ISIS.

Questo riavvicinamento alla strategia occidentale e russa, potrebbe aver suscitato delle insofferenze in una parte dell’esercito, da sempre incline a rivendicazioni anti-russe e anti-curde. Già nel 1960, ’71 e ’80, i militari, unica vera “classe tecnocratica” del paese, fortemente antisovietica (per il “padre della patria” Ataturk, i russi avevano tentato di impadronirsi oltre che dell’Armenia anche di altri porzioni storicamente appartenute all’Impero Ottomano), avevano rovesciato i governi eletti democraticamente, prendendo a spunto le lotte anche armate tra fazioni di destra e di sinistra.  Ma potrebbero essere stati anche la strisciante islamizzazione e gli scandali legati alla famiglia di Erdogan la molla per una parte preponderante dei militari, storicamente laica, pro-europea, legata agli ambienti Nato, a spingerli per dare una spallata al regime sempre più oligarchico e affaristico di Erdogan.

In questo Risiko mediorientale, comunque, la Turchia “normalizzata” da Erdogan dovrebbe preoccupare più di prima le cancellerie occidentali, proprio per la condotta spregiudicata e affaristica del “satrapo di Istanbul”. La principale tessera del Mosaico geopolitico della zona ora sembra essere stata risparmiata, per essere poi inserita al momento della riavvenuta pacificazione della disastrata regione, dove il fondamentalismo islamico, le divisioni tra Sunniti e Sciiti la fanno da padrone e dove le risorse energetiche dettano legge, decidono le fortune o le disgrazie dei potentati locali.


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