Sono trascorsi quindici anni e i fatti di Genova 2001 fanno ancora discutere, anche perché non hanno trovato completo chiarimento nei procedimenti giudiziari e amministrativi che ne sono scaturiti. Solo qualche giorno fa la Corte dei Conti ha emesso una sentenza che obbliga un buon numero di dirigenti presenti a Genova, a versare allo Stato 7 milioni di euro per danni d’immagine e materiali. La chiusura dell’articolo, pubblicato il 13 luglio scorso, scritto da Marco Grasso su il Secolo XIX, recita: «Tutto questo, per lo Stato, ha avuto un costo enorme. E ora la magistratura contabile presenta il conto. Non solo a chi è già stato condannato (sebbene la maggior parte delle condanne siano andate prescritte), ma anche a chi è stato assolto, come Sabella, ex assessore alla Legalità della giunta comunale di Roma guidata da Ignazio Marino, e il generale Doria, che avevano provato di non aver partecipato alle sevizie e di non essere stati nemmeno consapevoli che queste stessero accadendo.»
Dal punto di vista di un cittadino comune come me, è del tutto incomprensibile una vicenda giudiziaria-amministrativa di questo genere. Eppure non è l’unico caso a rappresentare la “confusione” totale, il cortocircuito nel quale è caduto lo Stato durante i giorni del G8 e nei successivi 15 anni. Ma da qui vale la pena partire per rievocare la drammaticità di quegli accadimenti, da questo strano cortocircuito.
Proprio il 13 luglio scorso, invitato alla Casetta Rossa, a Roma, per un dibattito in merito alla Legge sulla Tortura in discussione al senato, ho incontrato dopo molto tempo Lorenzo Guadagnucci. Lorenzo è una delle parti offese nel processo per i fatti della scuola Diaz, e fu il primo testimone diretto con il quale parlai quando con Procacci decidemmo di realizzare il nostro film. Non gliel’ho mai detto, proprio le sue parole confermarono la mia determinazione a non fare il classico film “di denuncia”, con ricostruzione delle presunte responsabilità e tutto il resto. Rimasi molto colpito dalla vividezza del suo dolore, dall’insopportabile sensazione di ingiustizia che le sue parole mi trasmettevano. Lorenzo si sentì “umiliato” dalla virulenza dell’aggressione a cui fu sottoposto, e quella “ferita morale” ancora più dei colpi ricevuti, bruciava e brucia ancora oggi. Lorenzo Guadagnucci è un giornalista e, a differenza della gran parte delle persone presenti dentro la scuola quella sera, ha potuto negli anni elaborare in forma di libri e altri interventi scritti e ragionati, ciò che gli è accaduto. Durante l’incontro alla Casetta Rossa, al fianco di Riccardo Noury e Ilaria Cucchi che ci ha profondamente commosso con le sue parole, Lorenzo ha detto una cosa fondamentale, cercando di argomentare sul perché è così difficile convincere l’opinione pubblica a sposare la causa di una seria legge sulla tortura, ha detto (più o meno) che la tortura è un “tabù”. Si prova “vergogna” a parlarne, è una cosa “dolorosa”. Questo per me è il tema centrale, la chiave di lettura fondamentale di ciò che è accaduto a Genova nel lontano luglio 2001 e delle difficoltà che ne sono conseguite a chiarire davvero la natura degli avvenimenti, da parte delle Stato, della pubblica opinione ma anche delle vittime. Ho sempre saputo, fin dalla scrittura del film, che non sposare una lettura “politica” e nemmeno una lettura “giudiziaria” avrebbe fatto saltare i nervi di tante persone interne ai movimenti, ma anche a quella parte della Polizia che ha difeso l’indifendibile fin da subito. Per certi versi è consolatorio poter dire da parte dei movimenti: «Ci hanno massacrato per le nostre idee…», oppure da parte della Polizia: «E’ colpa dei manifestanti perché hanno distrutto Genova». Temo che il motivo per cui stiamo ancora qui a parlarne vada al di là delle legittime e in larga parte condivisibili idee politiche del movimento e delle legittime ma molto discutibili ragioni di alcune rappresentanze della Polizia. Il motivo per cui ne parliamo è legato al fatto che abbiamo toccato con mano l’abisso nel quale si precipita quando vengono sospesi i diritti fondamentali della persona umana, conculcati i principii fondanti dello Stato di Diritto. Quando l’habeas corpus diventa un impaccio e quindi disatteso, lo Stato diviene autoritario, e schiaccia come un rullo compressore ogni cittadino che reclama libertà di parola e di pensiero. Quella frattura che abbiamo sperimentato a Genova io credo sia alla base di ciò che definiamo “crisi di rappresentanza”, ha spazzato via la credibilità di tutti gli organi dello Stato, compresa la politica, anzi soprattutto la politica. E’ difficile credere in una politica che non fa nulla per sanare quella ferita attraverso opportuni interventi legislativi, una politica che ormai è totalmente incapace di fronteggiare il minimo conflitto sociale, chiede sistematicamente alla Polizia di agire in sua vece, snaturando così la funzione degli organi dello Stato e divenendone schiava. Altrimenti non si spiega l’irresistibile forza di “lobby” che comprimono ogni ragionamento sensato sul tema della tortura, ma anche su tutto ciò che riguarda la modalità degli arresti, e i trattamenti nelle caserme oltre che nelle prigioni. Ogni volta che si affrontano temi di questo natura si genera un’isteria che conduce nel nulla ogni proposito legislativo. Non basta che (meritoriamente, sia chiaro) qualche magistrato della Procura di Genova, abbia portato a termine alcuni processi. Nessun importante dirigente, non il vecchio e non il nuovo Capo della Polizia, non il vecchio e non il nuovo Capo dello Stato, nessuno ha ancora oggi smentito quel comunicato stampa clamorosamente falso che ha dettato alle agenzie di tutto il mondo la frase secondo la quale le ferite degli arrestati della Diaz erano «ferite pregresse». Nessuno. Non basta che il PM in aula abbia dimostrato che quel comunicato era falso. Mi dispiace, non basta.
Ecco perché il tema centrale del mio film non poteva ruotare intorno alle motivazioni della protesta, e nemmeno a quelle della repressione intesa come volontà politica di fermare la protesta. Diaz don’t clean up this blood tratta della riduzione a cosa dell’essere umano, della umiliazione che uomini e donne hanno subito una volta caduti nelle mani dello Stato, se proprio bisogna schematizzare direi che è un film “sulla tortura”, sui metodi e sulle conseguenze della tortura. Mi rendo conto che anche la “vittima” ha bisogno di una spiegazione, di una “giustificazione”, vuole sapere perché gli è capitata quella cosa orrenda. Ma prima di tutto bisogna capire “cosa” è accaduto. Per me nel “cosa” e nel “come” c’è anche il “perché”. Nel comportamento di massa dei poliziotti, nel loro aver applicato il manuale del perfetto aguzzino come se fosse quello la base della loro formazione, e non la costituzione sulla quale hanno giurato, non si riesce a rintracciare una “spiegazione”, ma un complesso di attitudini comportamentali, ideologiche e persino antropologiche, che hanno svolto un ruolo importante almeno quanto la chiara volontà politica nel procedere alla repressione. L’accanimento sui corpi delle donne cosa vuol dire? E a ben guardare, in particolare ragazze spesso molto giovani e belle. E’ come se quegli agenti, totalmente privi di freni inibitori, avessero voluto cambiare i connotati a quelle ragazze. E l’odio contro le “treccioline” dei ragazzi? La richiesta di cantare canzoni fasciste? La richiesta di urlare, pena manganellate sulle gambe: «Lo stato è la Polizia»? Cosa vogliono dire queste cose? E cosa vuol dire che durante la lavorazione del film la questura di Genova sequestri tutti i mezzi di scena? E poi, tralasciando una decina di altre situazioni imbarazzanti, due agenti in borghese, qualificatisi come Digos, a 11 anni dai fatti di Genova, si presentino a Palermo, durante una anteprima ad inviti del film, a chiedere i nomi delle persone presenti in sala? E in quella sala c’è persino l’allora Capo della Procura di Palermo, non “sovversivi” né Black Block. Ecco perché dopo 15 anni ancora ne parliamo, perché Genova rappresenta una scandalo inestinguibile, il momento in cui tutti, anche chi non vuol vedere, capisce che la tanto sbandierata Democrazia è perfettamente reversibile, che lo Stato di Diritto è una variabile dipendente se non un concetto astratto. La cosa più incredibile accaduta durante i processi: alcuni anarchici, persone che non credono in nessuna forma statuale, sono venuti dalla Germania, dalla Spagna e dall’Inghilterra a testimoniare nei nostri tribunali, e a differenza di tanti uomini e donne in divisa che hanno partecipato a quei processi in qualità di imputati, hanno detto la verità. Che cosa se ne può concludere? Che forse credono più alcune “zecche” anarchiche nello Stato di diritto, che non certi poliziotti che a Genova lo hanno messo a dura prova? Vogliamo parlare poi di tanti giornalisti e uomini di cultura vari che hanno fatto e fanno spallucce dinanzi a quei fatti? Salvo poi scoprire che l’Italia non ha fino in fondo la credibilità per accusare l’Egitto di aver praticato la tortura su Giulio Regeni, visto che non ha mai ratificato la convenzione Onu sulla tortura che risale al 1984 (84!). Guarda caso, la discutibilissima legge sulla tortura, attualmente in discussione nel nostro parlamento, è frutto di una condanna ricevuta dall’Italia proprio per i fatti della Diaz. Ecco che il cerchio si chiude. Noi parliamo ancora oggi dei fatti di Genova 2001, perché hanno mostrato al mondo intero che la nostra Democrazia è una eterna incompiuta. E se, prima di tutto da parte dei cittadini, non si sviluppa una coscienza critica all’altezza della complessità del nostro presente, non potremo lamentarci se qualcuno o qualcosa verrà a dirci: «Per difenderci dal nemico, dovete rinunciare alla vostra libertà». Genova docet.