Eli Wiesel, una vita contro l’indifferenza

0 0

Ci lascia Eli Wiesel ed è impossibile non provare un senso di rammarico, di tristezza, di dolore universale, quasi di rabbia per l’ennesimo addio di un anno che ci ha già portato via troppi esempi, troppi modelli e troppi punti di riferimento, in una fase storica nella quale ne avremmo invece un gran bisogno.

Eli Wiesel e la sua battaglia lunga quasi un secolo in nome della pace e della dignità dell’uomo; Eli Wiesel e la sua lotta indomita per i diritti umani e contro ogni forma di sopruso; Eli Wiesel paladino degli ultimi, della memoria storica, della sua trasmissione alle giovani generazioni e del suo essere una fonte viva di sapere, di conoscenza e di progettazione del futuro.

Eli Wiesel, romeno di nascita e americano d’adozione, autore di numerosissimi libri dedicati alla questione ebraica e alla trasmissione dell’esperienza del lager; Eli Wiesel e la difficoltà di trovare un aggettivo adatto per descriverne la grandezza, trattandosi di un uomo che ha dedicato l’intera esistenza alla battaglia in difesa non tanto della propria storia o della propria esperienza ad Auschwitz quanto, più che mai, alla battaglia suprema affinché ciò che è stato non venisse dimenticato, affinché chi non c’era sapesse, affinché le nuove generazioni decidessero di farsi portavoce e, a loro volta, testimoni di un dolore che va al di là della razza ebraica ma abbraccia l’intera umanità, essendo stata sdoganata, nell’abisso dei campi di concentramento nazisti, la logica dello sterminio e dell’odio come strumento politico legittimo.

Non a caso, egli asseriva: “L’opposto dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza”: una barbarie contro la quale vale la pena spendersi con forza, mettersi in gioco, battersi con tutta l’anima, con coraggio, con orgoglio, con la massima determinazione perché è l’indifferenza la madre di tutti i regimi, di tutte le tirannie, di tutte le violenze, di tutte le crocifissioni, di tutti i lager e di tutte le impiccagioni; è la madre dell’annientamento di una razza, della sconfitta collettiva dell’uomo, delle guerre e delle giustificazioni che vengono ammannite al popolo affinché le accetti; è la prima responsabile del nostro declino e la sua principale fonte di alimentazione, ed è per questo che va combattuta ogni giorno, respinta e detestata; infine, è per questo che con essa non bisogna mai scendere a patti né, tanto meno, con chi se ne fa interprete in nome del proprio egoismo e della propria assurda illusione di poter essere un’isola nel contesto di un mondo globale.

Non a caso, egli racconta ne “La notte” un episodio straziante: “Ho visto altre impiccagioni, ma non ho mai visto un condannato piangere, perché già da molto tempo questi corpi inariditi avevano dimenticato il sapore amaro delle lacrime.
Tranne che una volta. L’Oberkapo del 52° commando dei cavi era un olandese: un gigante di più di due metri. Settecento detenuti lavoravano ai suoi ordini e tutti l’amavano come un fratello. Mai nessuno aveva ricevuto uno schiaffo dalla sua mano, un’ingiuria dalla sua bocca. Aveva al suo servizio un ragazzino, un pipel, come lo chiamavamo noi. Un bambino dal volto fine e bello, incredibile in quel campo.

Un giorno la centrale elettrica di Buna saltò. Chiamata sul posto, la Gestapo concluse trattarsi di sabotaggio. Si scoprì una traccia: portava al blocco dell’Oberkapo olandese. E lì, dopo una perquisizione, fu trovata una notevole quantità di armi.

L’Oberkapo fu arrestato subito. Fu torturato per settimane, ma inutilmente: non fece alcun nome. Venne trasferito ad Auschwitz e di lui non si senti più parlare.

Ma il suo piccolo pipel era rimasto nel campo, in prigione. Messo alla tortura restò anche lui muto. Allora le S.S. lo condannarono a morte, insieme a due detenuti presso i quali erano state scoperte altre armi.
Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello: tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l’angelo dagli occhi tristi.

Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L’ombra della forca lo copriva.

Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia.

Tre S.S. lo sostituirono.

I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.

– Viva la libertà! – gridarono i due adulti.

Il piccolo, lui, taceva.

– Dov’è il Buon Dio? Dov’e? – domandò qualcuno dietro di me.

A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.

Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava.

Scopritevi! – urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo.

– Copritevi!

Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente, il bambino viveva ancora…

Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.

Dietro di me udii il solito uomo domandare:

– Dov’è dunque Dio?

E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:

– Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…”.

E cos’è questo se non il frutto avvelenato dell’indifferenza, ciò che induce le persone ad abbrutirsi, a non provare più nemmeno sgomento, ad abituarsi alla malvagità fin quasi a considerarla normale? Del resto, a cosa serviva l’annientamento dell’essere umano nei campi di sterminio, fino a trasformare chiunque nel numero che aveva tatuato sul braccio, se non a far diventare naturale ai suoi occhi l’aberrazione in cui era immerso, trasformando in routine un abominio che mai avrebbe potuto sopportare nel suo vivere quotidiano?

Perché purtroppo, come sapeva e spiegava bene Eli Wiesel, anche alla peggiore ferocia, se non si mantiene alta la guardia, si finisce con l’abituarsi, fino a non indignarsi più, a non farci più caso, a passare oltre, come se un attentato, una strage o un genocidio fossero fenomeni comuni, notizie che stanno bene fra una sfilata d’alta moda e i risultati del campionato di calcio.

Non è così, l’indecenza e l’orrore non sono mai accettabili.

Per questo, sempre ne “La notte”, Wiesel scrive, a proposito del suo arrivo ad Auschwitz: “Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.

Mai dimenticherò quel fumo.

Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.

Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.

Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.

Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai”.

E in quel mai è racchiuso il senso di un’esistenza, di un tormento, di una lotta interiore, di una vittoria e di un insieme di valori e di princìpi non negoziabili. Per questo, con la scomparsa di Eli Wiesel, premio Nobel per la Pace nel 1986, l’umanità ha perso un modello; per questo ci sentiamo più soli, in questo silenzio in cui ci scorre davanti agli occhi tutta la sofferenza di un uomo che ha vissuto quasi un secolo affinché tutti sapessero e nessuno dovesse vivere mai più un simile strazio, affinché quel mai divenisse un programma politico condiviso e non una mera esibizione retorica buona per celebrare il Giorno della memoria e sentirsi in pace con una coscienza, al contrario, sporca e complice o, più semplicemente, indifferente.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21