Leggendo un annuncio affisso sulla vetrina di un bar, in un quartiere della movida torinese, una ragazza originaria del Ruanda si propone come cameriera. La risposta? “Non possiamo assumere neri, i clienti non si farebbero mai servire da te”. Ma il quartiere non ci sta ad essere additato come un’enclave razzista
TORINO – “Cercasi cameriera. Purché non sia di colore”. Pare un ossimoro che accada a Torino, città multietnica per eccellenza, dove gli stranieri ormai coprono il 15 per cento dei residenti; ma sui portoni affacciati in queste stesse strade, appena 30 anni fa, ancora campeggiavano quei famosi cartelli che ammonivano: “qui non si affitta ai meridionali”. E a sentire il racconto di Piero Passatore – 35 anni, attore, regista e doppiatore, gli ultimi due decenni trascorsi tra Londra e New York – quell’epoca potrebbe non essere del tutto metabolizzata da queste parti.
C’è un bar nel quartiere Vanchiglia, di quelli che a mezzogiorno servono piatti caldi a impiegati e pendolari. Qualche giorno fa, entrando a fare colazione, Passatore legge all’ingresso che i titolari cercano una cameriera: “Gli ho parlato di Ange, la mia fidanzata” racconta. “Gli ho detto quanto sia bella, solare, affabile, specificando che aveva anche un po’ d’esperienza nel lavoro al banco. Loro parevano entusiasti, mi hanno chiesto di farle portare un curriculum. Finché non è venuto fuori che è nera”. A quel punto, secondo Passatore, l’inversione di marcia sarebbe stata istantanea. “La proprietaria, che per inciso è una donna cinese – continua – mi ha spiegato, come fosse la cosa più naturale del mondo, che assumere una barista di colore non è concepibile in quel bar. ‘Io non sono razzista’ mi ha detto ‘sono i residenti del quartiere ad esserlo. Molti dei nostri clienti sono anziani, e qui non verrebbero più’”.
Passatore però la pensa diversamente: “Qui i tempi sono cambiati – spiega -. Io ci vivo in questa strada e nessuno si farebbe grossi problemi”. A fare impressione, in effetti, è proprio il fatto che questa storia accada a Vanchiglia, ex quartiere semiperiferico a ridosso della Dora, che la trasformazione urbana del post-olimpiade ha trasformato progressivamente in polo universitario e snodo della movida giovanile. Ma è lo stesso Robert – 38enne albanese, compagno della titolare del bar – a rincarare la dose. “Spesso la mia fidanzata non è in grado di spiegarsi bene – dice – e magari quelle parole le avrà pronunciate con troppa leggerezza. Ma ai ragazzi ha detto la verità. La verità è che stiamo cercando una ragazza perché io non ce la faccio più a lavorare da solo al bancone: ci sono costretto perché la maggior parte degli avventori, quando entra e si trova di fronte a una cinese, gira sui tacchi e va a mangiare altrove. Il bar lo abbiamo rilevato perché si trova a due passi dall’ospedale Gradenigo, e in teoria a pranzo dovremmo fare il pieno tutti i giorni: ma gli unici a non far caso al colore della sua pelle sono i clienti abituali. Gli altri entrano solo quando al banco ci sono io: dovreste vedere i filmati delle telecamere di sicurezza per rendervi conto di quanto sto dicendo”.
A Vanchiglia però, i residenti non ci stanno a essere additati come una sorta di enclave razzista sul limitare tra il centro e la prima periferia di Torino. Intervistato da Repubblica, don Gianluca, parroco della chiesa di Santa Giulia, ha fatto notare come in estate sia un sacerdote ghanese ad aiutarlo a celebrare messa; e in molti ora prendono le distanze dalle parole dei due baristi. Ma a leggere la pagina Facebook di Passatore, dove l’episodio ha dato vita a un serrato dibattito, si direbbe che un problema di razzismo strisciante esista. E più che un solo quartiere, riguardi la città, se non proprio l’intero paese. C’è chi, ad esempio, riferisce d’essere stato additato come ladro in un negozio d’abbigliamento, senza aver fatto nulla di sospetto. Willie, a sua volta di colore, racconta: “Spesso, quando vado a consegnare un curriculum, prima ancora che riesca ad avvicinarmi mi hanno già liquidato con un ‘non abbiamo bisogno’. Mi è capitato perfino di sentirmi dire ‘non ci servono negri qua’”.
Ed è la stessa Ange – 28 anni di cui 23 trascorsi in Ruanda, prima di arrivare a Torino nel 2011 – ad ammettere di non trovare così insolito quanto è accaduto in quel bar. “Non è la prima volta che mi capitano episodi del genere – racconta -. Qualche anno fa facevo volontariato in una casa di riposo di Mondovì, e ogni giorno, arrivati a ora di pranzo, mi chiedevano di non farmi vedere in sala da pranzo, perché gli anziani non mangiavano se a servirli o a cucinare era una ragazza nera”. L’ultimo lavoro, per via del colore della sua pelle, ad Ange lo avrebbero negato appena ieri: “Un’amica mi aveva contattato per fare da badante a un anziano. La signora con cui ho parlato al telefono mi aveva già dato un appuntamento per il giorno seguente, in piazza Rivoli. Ma quando le ho detto che venivo da un paese africano è saltato tutto. D’improvviso, la signora si è ricordata che quel posto lo aveva già promesso a un’altra”. (ams)