Il successo dell’offerta pubblica di scambio (Opas) messa in campo dall’editore de “La7” e di numerose testate cosiddette leggere –Urbano Cairo– ha vinto. La disfida di Rcs-Corriere della Sera. Ora l’ex collaboratore di Berlusconi, ma poi largamente affrancatosi, è proprietario del 48, 82% del capitale del gruppo, a fronte del 37,7% raccolta dall’Opa proposta dalla cordata del finanziere Andrea Bonomi con i quattro soci storici di Rcs, Diego Della Valle, Mediobanca, Pirelli e Unipol-Sai, racchiusi nella “International Media Holding”. E’ un avvenimento persino simbolico, che travalica lo stesso oggetto stretto della questione. Vale a dire, il successo parzialmente imprevisto di un protagonista più recente e meno blasonato –pur “scortato” da “Intesa”- su ciò che residua degli (ex) salotti buoni. E una resa dei conti attesa tra “Mediobanca” e “San Paolo”.
La favola antica di Davide e Golia, o l’epopea di Forrest Gump sembrano sempreverdi. L’ultimo campionato europeo di calcio ha glorificato le squadre considerate povere e outsider, dall’Islanda al Galles, fino al Portogallo della finale privato di Ronaldo. Più corposamente, la politologia si sta esercitando in questa prolungata fase del “post” sulla dialettica oppositiva tra Alto e Basso: ceti ed élites versus senza potere o meno protetti e tutelati. Certamente, è difficile sostenere che il patron del Torino sia un mero eroe per caso, né manca il supporto bancario dietro le spalle. In verità, si tratta di un imprenditore di lunga lena, che ha avuto l’intuizione giusta di puntare sul “terzo polo” televisivo quando il “duopolio” si stava infiacchendo. E quando l’omologazione culturale lasciava più di un interstizio aperto per altre novelle, con la voce e i volti dei bravi Crozza, Gruber, Mentana. Ad esempio.
Tuttavia, la resistibile ascesa accende i riflettori su alcuni fenomeni: il capitalismo italiana è in crisi strutturale, e gli impasti tradizionali composti di famiglie abbienti e generosi interventi statuali non reggono. C’è voglia di aria nuova e il capitalismo digitale non perdona i ritardatari. Non solo. L’evidente caduta di autorevolezza politica di Matteo Renzi con i suoi annessi e connessi ha liberato forze diverse: non necessariamente alternative o di per sé progressiste (Cairo non risulta un pericoloso comunista), bensì propense a rispondere alla forte domanda di una comunicazione meno imbalsamata e magari prefiguranti il prossimo girone della ruota italiana. Ecco, allora, che il paradosso potrebbe persino essere l’inversione di ruoli tra “Corriere della Sera” e “Repubblica”. Per dire, chissà. Si capirà, è prematuro pensare al futuro, del resto reso incerto dal quadro assai pesante in cui versa l’intero settore editoriale. Ne parla, ma senza tirarne le necessarie conseguenze, la relazione annuale del presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni Marcello Cardani, pronunciata alla Camera dei deputati lo scorso 5 luglio. “L’andamento economico mostra il carattere strutturale della crisi”, si recita. Appunto, ma manca qualcosa: una verifica della trasparenza delle varie operazioni, l’assenza di conflitti di interesse, i riferimenti al quadro normativo sulle concentrazioni.
In bocca al lupo, Cairo. Ma qualcuno si vorrà occupare del contesto generale in cui avvengono queste variazioni sul tema? L’occasione ci sarebbe: è in Senato la riforma dell’editoria. Di che intende parlare, solo degli angoli periferici o anche del centro del sistema? E poi: che ne sarà dell’occupazione di chi lavora? E si potrà conoscere davvero il piano industriale? Attenti, insomma, ad applaudire subito.