L’anniversario della strage di via d’ Amelio, in cui 24 anni fa persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, arriva in un’ atmosfera carica di ombre, di dubbi, sull’attività dei poliziotti che tra il 1992 e il 1994 svolsero le indagini sull’attentato, tirando letteralmente fuori dal cilindro tre pentiti, e in particolare Vincenzo Scarantino, che in realtà nulla sapevano dell’eccidio e delle trame di mafia che lo avevano innescato. Arrivarono i primi processi, le contraddizioni, gli scivoloni e le ricostruzioni fasulle, nonostante qualche magistrato – innanzitutto Ilda Boccassini – avesse avvertito che Scarantino era solo un piccolo delinquente e non appariva credibile. Altri magistrati in fase di indagini e poi in aula di dubbi non ne ebbero, o quanto meno non ne mostrarono, se non in qualche caso -e tardivamente- magari per usarli come ciambella di salvataggio. I suoi racconti, palesemente imbeccati, portarono alla condanna di innocenti e, tra gli altri, anche di qualche mafioso, ma che comunque con la strage non c’entrava. Menzogne, insomma, smascherate dall’inchiesta che ha portato al quarto processo Borsellino e ad una indagine per depistaggio nei confronti di sei funzionari di polizia che dipendevano da Arnaldo La Barbera, dirigente della Polizia di Stato, deceduto anni fa. Ora per chiarire alcuni di questi aspetti -che saranno comunque approfonditi dall’indagine per il depistaggio- sono stati ascoltati una seconda volta Lucia e Manfredi, i figli di Paolo Borsellino. Manfredi, oggi funzionario di polizia, ha risposto a una domanda del pm affermando che intorno a quello che era accaduto durante le indagini sulle stragi circolavano commenti pesanti: “Posso dire che, nel nostro ambiente, si parlava di colleghi che si sono salvati, tra virgolette, intuendo che c’era qualcosa che non andava, perché avevano preso le distanze dal gruppo d’indagine”.
Ai magistrati di Caltanissetta Lucia Borsellino ha detto: “Se fosse vero quanto emerso fino ad ora su eventuali manipolazioni da parte di uomini dello Stato vorrebbe dire che mio padre è stato ucciso due volte. Ciò che mi indigna –ha proseguito– sono i tanti non ricordo portati qui da tanti uomini dello Stato ha concluso”. Ascoltata qualche giorno prima in Commissione Parlamentare Antimafia la figlia di Paolo Borsellino era stata altrettanto netta. “Nel caso della strage – aveva chiarito Lucia Borsellino – non è stata fatto ciò che sarebbe stato giusto si facesse, il lavoro fatto è tanto ma per quello che sta emergendo credo ci si debba interrogare se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni. Scusate se dico questo in una sede istituzionale, ma il sospetto che uomini dello Stato abbiano potuto tradire un altro uomo dello Stato mi fa vergognare e mi spinge a chiedere un supporto a chi ritiene di potersi impegnare nella ricerca della verità”.
Quello che emerge da Caltanissetta -che qui è solo sommariamente tratteggiato-, le parole di Manfredi e Lucia Borsellino, interrogano magistratura e investigatori sul tempo trascorso, sul percorso tortuoso, discutibile, seguito nella ricerca della verità e sulle condotte per lo meno dubbie, se non decisamente inammissibili e gravi di alcuni. Interrogano altrettanto seriamente i comportamenti di una parte consistente dei media, dell’informazione, vertici di testate importanti: hanno ignorato -sordi a chi ne richiamava l’attenzione- che quanto tanti magistrati e investigatori onesti cercano da anni di scoprire, quello che accadeva a Caltanissetta, al processo Borsellino quater, riguarda la storia e la vita del Paese.