BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Mille modi per dire sport

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Come detto già in altre occasioni, il 2016 è un anno denso di anniversari: sia in ambito politico sia a livello sportivo e del costume. E noi, stavolta, abbiamo deciso di occuparci di numerose personalità sportive, diversissime fra loro, ma che meritano comunque un omaggio, trattandosi di campioni, di protagonisti o di narratori delle vicende agonistiche che hanno reso grande il proprio mondo e contribuito a rendere avvincente questo romanzo popolare che si dipana da oltre un secolo, riempiendo le nostre domeniche, le nostre estati, i nostri momenti di svago e, ovviamente, i nostri sogni e le nostre speranze e regalandoci emozioni che nessun’altra attività umana è in grado di regalarci.
Alcuni di loro, purtroppo, non ci sono più, in un vortice di ricordi e di rimpianti che ci accompagna ogni volta che immaginiamo cosa avrebbero detto, cosa avrebbero fatto, come si sarebbero comportati e cosa avrebbero pensato di questo mondo che cambia ad una velocità repentina, che diventa sempre più globale, che si trova a fare i conti con uno spostamento netto e tangibile dei centri del potere e della ricchezza, diremmo quasi con una sorta di colonizzazione della vecchia Europa ad opera delle potenze emergenti, e che tuttavia mantiene immutato il proprio fascino, come se quella meraviglia bambina chiamata sport fosse riuscita nel miracolo di mantenere comunque il proprio candore e la propria ingenuità.

Alcuni di essi, invece, hanno già festeggiato o stanno per festeggiare un compleanno importante che in un caso, quello di Totti, sarà celebrato sul campo, come solo gli immortali sanno fare.

Facchetti e Prisco: c’era una volta la Grande Inter

Milano, anni Sessanta, pieno boom economico. La Rinascente con i panettoni, le prime vacanze estive, la scoperta dell’automobile e degli elettrodomestici, l’arrivo del benessere collettivo, l’aumento esponenziale dei salari e della speranza di vita e, ovviamente, l’ascesa della migliore imprenditoria, il cui riverbero si proiettò naturalmente sull’epopea pallonara, innervando quella competizione ai massimi livelli, nazionali e internazionali, che ebbe in Milan e Inter le proprie espressioni meglio riuscite.

Sponda nerazzurra: in panchina c’è un tecnico argentino, Helenio Herrera, cultore della tattica, della feroce determinazione agonistica e capace di scolpire massime destinate a passare alla storia, tanto che i suoi giocatori lo ricordano, a distanza di mezzo secolo, come un condottiero dal carisma indimenticabile e, forse, irripetibile.

Tra i suoi ragazzi c’era un terzino sinistro: longilineo, elegante, dotato di una corsa travolgente e di una tecnica sopraffina, leale come pochi, capace di farsi rispettare con la forza della propria autorevolezza, senza mai alzare la voce né lasciarsi andare a comportamenti scorretti. Si chiamava Giacinto Facchetti, era nativo di Treviglio, correva i cento metri in poco più di dieci secondi, fluidificava, come si dice in gergo, e fu l’inventore del terzino d’attacco, ossia di quel difensore che non solo interrompe la manovra avversaria ma imposta quella della propria squadra, divenendone protagonista.
Facchetti era un galantuomo nel vero senso della parola: un ragazzo d’oro, capace di vivere con sobrietà e compostezza la fama e il successo, di non montarsi mai la testa, di conservare l’umiltà e la dedizione tipica dei fuoriclasse anche quando era ormai giunto sul tetto del mondo. Dopo aver vinto ogni trofeo, dopo aver vissuto qualunque avventura, nell’Inter e in Nazionale, si allenava ancora con la stessa abnegazione e con il medesimo entusiasmo di quando era un giovane alle prime armi ed Herrera sbagliava il suo nome chiamandolo Cipelletti, al punto che per tutti divenne il “Cipe”: un simbolo che ha onorato la maglia nerazzurra e lo sport nel suo senso più nobile, esprimendone i valori più elevati e divenendo un esempio di saggezza e rispetto per gli altri che lo portò a ricevere addirittura una targa UNESCO come riconoscimento per il suo grande fair play e per la sua correttezza esemplare. Se ne è andato troppo presto, povero Cipe, ad appena sessantaquattro anni, vinto da un maledetto tumore al pancreas, senza riuscire ad ammirare i successi dell’Inter di Mancini e Mourinho, i cinque scudetti di fila, la Champions League conquistata quarantacinque anni dopo il trionfo di Milano contro il Benfica, le vittorie di Ibrahimovic e successivamente di Eto’o, la banda del “triplete” e l’apoteosi dell’alba del giorno dopo a San Siro, in un crescendo di felicità che di sicuro lo avrà reso orgoglioso per gli sforzi fatti e per le tante amarezze subite negli anni precedenti.

E senza dubbio sarà stato felice anche Armando Picchi, capitano di quella Grande Inter che vinceva tutto, scomparso giovanissimo a causa di una forma piuttosto grave e pervasiva di amiloidosi che se lo portò via nel giro di pochi mesi, prima di diventare un allenatore di vaglia, prima di scrivere la storia anche in panchina, dopo essere stato un assoluto protagonista sul campo e aver condotto lo squadrone che ebbe l’onore di guidare da capitano a una stagione di successi pressoché irripetibile.
A manovrare i fili di quella meraviglia nerazzurra c’era poi un avvocato, Peppino Prisco, i cui aforismi sono passati alla storia.

Quando stringo la mano a un milanista me la lavo. Quando stringo la mano a uno juventino mi conto le dita” E ancora: “La gioia più grande? Scontata. Il Milan in B. E per ben due volte: una… a pagamento e una… gratis. Sono dell’idea che una retrocessione cancelli almeno cinque scudetti conquistati e che la vittoria di una Mitropa Cup elimini i residui”. Questo era il verace avvocato che ha scritto alcune delle pagine più belle della storia dell’Inter e del calcio italiano. Un personaggio singolare, inimitabile, dotato di un’ironia pungente e bonaria, di una bellezza d’animo difficile da riscontrare altrove e di un profondo senso della giustizia e dell’umanità.

Quindici anni fa il suo addio, all’età di ottant’anni, e la sensazione improvvisa di essere tutti più soli, privi di un avversario cui era impossibile non voler bene.

Beppe Furino: emblema di juventinità

Settant’anni compiuti lo scorso 5 luglio per “Furia-furin-furetto”, il Capitano con l’elemetto”, come era solito chiamarlo Vladimiro Caminiti, storico giornalista sportivo nonché cantore di tanta meraviglia bianconera, delle sue imprese e di quello stile Juve che ormai può sembrare un esercizio retorico per vecchi romantici ma che per svariati decenni ha marcato la differenza tra la Signora e le altre contendenti per lo scudetto e per la gloria europea.

E Beppe Furino da Palermo, mediano tutto cuore e polmoni, antesignano di Gattuso ed emblema della classe operaia al servizio del talento puro dei Bettega, dei Benetti, dei Pietruzzo Anastasi e, successivamente, dei Platini, questo guizzante centrocampista senza eccelse doti tecniche ma capace di una correttezza e di una dedizione al lavoro assolutamente esemplari è stato protagonista di ben quindici stagioni bianconere, conquistando otto scudetti, al pari di Rosetta e Ferrari, la storica Coppa UEFA del ’77, primo trofeo internazionale della Juve, la Coppa delle Coppe dell’84 e due Coppe Italia.

361 presenze, innumerevoli avventure, un gioco maschio ma sempre leale, una spina nel fianco per qualunque avversario e un capitano esemplare prima di un tramonto comunque ricco di dignità, fino al ritiro avvenuto alla soglia dei trentotto anni.

Disse di lui ancora Caminiti: “Nella sua storia leggendaria la Juve ha avuto eccelsi gregari. Ma nessuno all’altezza di questo nano portentoso, incontrista e cursore, immenso agonista, indomabile nella fatica, i piedi come uncini dolorosi in certe circostanze”.

E a chi gli chiese se fosse una bandiera, Furino rispose: “Capitano sì, bandiera no. Non mi è mai piaciuto l’accostamento con le bandiere, che stanno alte in cima a un pennone. Io stavo rasoterra, a lottare”.

Paolo Rossi: dall’interno alla gloria di “Pablito”

Paolo Rossi da Prato, che il prossimo 23 settembre raggiungerà il traguardo dei sessant’anni, è forse l’emblema di quanto lo sport, e il calcio in particolare, sia una metafora della vita.
Campioncino in erba nella favola del Lanerossi Vicenza, pezzo pregiato della Nazionale di Bearzot al Mondiale argentino del ’78, al momento di consacrarsi come un fuoriclasse di livello internazionale, nell’80, quand’era in forza al Perugia, rimase invischiato nello scandalo del calcio-scommesse, restando fermo per due anni e causando velenose critiche a Bearzot per averlo convocato fra i ventidue membri della spedizione azzurra in Spagna. E le prime tre partite, conclusesi con altrettanti pareggi, va detto che diedero ragione ai rispettivi detrattori, spesso le stesse persone, tanto che ormai Paolo Rossi, a neanche ventisei anni, era considerato alla stregua di un ex giocatore. Poi venne quel pomeriggio, al “Sarrià” di Barcellona, stadio dell’Espanyol, cugino povero del pluridecorato Barça, e all’improvviso l’ex giocatore ormai finito divenne “Pablito”, mettendo a segno una memorabile tripletta al Brasile che consentì ai ragazzi di Bearzot di accedere alla semifinale contro la Polonia di Boniek e Lato, a sua volta battuta tre giorni dopo per 2 a 0, con doppietta dello stesso Rossi. Infine la finale, domenica 11 luglio 1982, al “Santiago Bernabéu”, in cui Rossi segnò il primo dei tre gol con cui l’Italia superò la Germania Ovest, seguito dalle reti di Tardelli, Altobelli e Breitner per l’onore dei tedeschi.

Il Pallone d’oro, la gloria imperitura, la felicità, il rispetto recuperato, il posto d’onore nell’Olimpo dei più grandi di sempre e oggi una serena maturità che gli consente di guardare al calcio con la stessa genuina passione di quando aveva vent’anni e ne era uno dei protagonisti più amati.
Pensate come sarebbe stata diversa la sua e la nostra storia se a quei tempi, sulla panchina della Nazionale, non ci fosse stato un visionario come Enzino Bearzot!

Totti e Nesta: la romanità e la grandezza

Francesco Totti e Alessandro Nesta, romani, entrambi classe ’76, l’uno di settembre e l’altro di marzo, l’uno laziale e l’altro romanista, l’uno fedele per l’intera carriera alla stessa maglia e l’altro grande in gioventù con la squadra biancoceleste e nel pieno della maturità sportiva nelle file del Milan vincitutto di inizio secolo, quest’anno diventano quarantenni. E a noi non può che ispirare una certa tenerezza ripensare a quando erano ragazzi, a quando li vedevamo sgambettare insieme nella Nazionale di Dino Zoff e, successivamente, di Giovanni Trapattoni, a quando abbiamo provato un sentimento di dolore e sofferenza nell’apprendere che non avrebbero più giocato in maglia azzurra per dedicarsi alle rispettive squadre e a come sarà il calcio quando anche il ragazzo di Porta Metronia, fra dodici mesi, appenderà gli scarpini al chiodo, chiudendo per sempre un’epoca e una stagione importante della nostra vita.

Zola e Pagliuca: dalla provincia con furore

Gianfranco Zola e Gianluca Pagliuca, mezzo secolo per entrambi. I compagni di squadra al Mondiale di USA ’94, eterni secondi ma anche straordinari campioni, capaci di rendere al meglio e di dispensare magie sia sui palcoscenici nobili di Milano (sponda Inter, Pagliuca) e Londra (sponda Chelsea, Zola) sia in quella provincia italiana che vede in Parma, Bologna e Cagliari tre piazze storiche di tutto rispetto.

Hanno smesso entrambi da una decina d’anni e ormai ci siamo rassegnati a non vederli più in campo, a non sentire più i loro nomi nelle radiocronache e nelle telecronache domenicali, a non leggere più  i commenti su di loro il lunedì mattina, a fare a meno della loro classe, in porta e nell’area di rigore avversaria, eppure ogni volta che ci capita di rivedere una vecchia sfida in cui il ragazzo di Oliena e quello di Bologna si affrontano da avversari o giocano insieme è impossibile non essere sopraffatti dalla nostalgia per un calcio che non è poi così lontano a livello temporale ma che ci appare comunque più genuino, più sano, più umile e capace di regalare emozioni maggiori rispetto a quello attuale. Oggi, infatti, nessun giocatore dotato della medesima classe accetterebbe mai di mettere le proprie qualità al servizio di cause meno milionarie e presenti sotto i riflettori di quelle cui hanno votato la propria arte questi galantuomini d’altri tempi, ormai desueti per la loro signorilità, per il loro garbo, per la loro capacità di essere protagonisti anche quando le luci si spengono e lo spettacolo è finito, come solo gli uomini davvero in pace con se stessi sono in grado di fare.

Camoranesi: l’italiano di Tandil

Mauro Germán Camoranesi, nato a Tandil (Argentina) il 4 ottobre 1976 e naturalizzato italiano grazie ai nonni originari di Potenza Picena Macerata), ha avuto il merito di rinverdire la non sempre positiva tradizione degli oriundi che hanno vestito la maglia azzurra.

Centrocampista talentuoso, si fece conoscere nel Verona, prima di essere acquistato dalla Juventus nell’estate del 2002, divenendone in breve una colonna portante. Cuore, grinta, polmoni e una tecnica sopraffina ne hanno fatto uno dei pilastri della Nazionale di Trapattoni prima e di Lippi poi, fino all’apoteosi del trionfo nella notte di Berlino.

Ha avuto una carriera esemplare e ha saputo accettare con filosofia e buonsenso il fisiologico declino, mostrando ancora una volta di possedere la saggezza dei grandi.

Marchisio: il Tardelli del Duemila

Torinese di nascita, dove è venuto al mondo il 19 gennaio 1986, Claudio Marchisio ha tutto per affermarsi come il Tardelli del Duemila. Centrocampista grintoso, capace sia di contenere che di impostare, juventino fino al midollo, pacato e impregnato di quello “stile Juve” che tanto piaceva a Boniperti e all’Avvocato, ha tutto per diventare un fuoriclasse assoluto, anche se finora gli è mancato un trionfo in Nazionale, a causa del minor talento complessivo dell’Italia pallonara, la quale difficilmente riuscirà in pochi anni a colmare il gap che la divide da squadre ricche di campioni come la Francia, la Germania e il Portogallo.

Peccato perché il “Principino”, come viene affettuosamente soprannominato, meriterebbe ben altra sorte, dopo aver vinto moltissimo in maglia bianconera, contribuendo in maniera decisiva ad ogni singolo successo.

Casillas e Király: due bandiere tra i pali

Uno spagnolo, l’altro ungherese, uno classe ’81, l’altro classe ’76, uno capace di giocare per sedici stagioni nel Real Madrid, vincendo tutto e stabilendo una messe di record anche per quanto riguarda le presenze, l’altro protagonista più che altro in Nazionale, va detto che hanno poco in comune eccetto la longevità e il carisma, essendo due giocatori entrambi capaci di fare reparto da soli e di motivare i difensori e l’intera squadra nei momenti più difficili.

Casillas è senz’altro più noto, più stimato, il secondo portiere più forte della propria generazione dopo Buffon; il simpatico Király è ancora lì, con i suoi pantaloni lunghi di colore grigio, il suo stile particolare, la sua serenità interiore e la sua capacità di trasmettere la propria calma ai compagni: tutte virtù che, pur non essendo un campione, ne hanno fatto comunque un protagonista del calcio contemporaneo. Se permettete, non è poco.

Seedorf: tutti a lezione dal professor Clarence

Nativo di Paramaribo (Suriname), lo scorso 1° aprile ha compiuto quarant’anni, dopo averne trascorsi oltre venti a dispensare gioia, classe e allegria sui campi di mezzo mondo. Centrocampista totale, uno dei pochi, fra i contemporanei, che sarebbe stato senz’altro titolare anche nel mitico Ajax e nell’Arancia meccanica di Michels e Cruijff, il professor Seedorf ha dato in Italia un saggio della propria classe cristallina, illuminando per circa un decennio il gioco rossonero e regalando al club meneghino due Champions League, dopo averne vinte altrettante con le maglie dell’Ajax e del Real Madrid.

Quando era in forma, il professor Clarence non giocava: impartiva lezioni dall’alto del proprio magistero, lasciando a bocca aperta gli spettatori, i quali potevano godersi un reparto centrale in cui al suo fianco danzavano i vari Pirlo, Rui Costa, Kaká e Gattuso, quest’ultimo nella preziosa funzione di centometrista e distruttore del gioco altrui.

Meno fortunata la parentesi interista: è sull’altra sponda dei Navigli che Seedorf ha trovato il Nirvana, riempiendo gli occhi di tutti gli appassionati di pura meraviglia e oggi di indicibile rimpianto.

Costacurta: milanista a vita

Anche Billy Costacurta, classe ’66, quest’anno ha raggiunto la cifra tonda, dopo essersela cavata egregiamente in un reparto difensivo che poteva contare su fuoriclasse del calibro di Maldini, Baresi e Tassotti, oltre che su portieri come Galli, Rossi, Abbiati e Dida. Umile, corretto, tenace, indistruttibile, milanista fino al midollo e capace di portare sui campi più prestigiosi lo stesso entusiasmo degli anni delle giovanili, Costacurta appartiene alla ristretta categoria degli highlander. Si è ritirato nel 2007, a quarantuno anni, quando tutta la gloria possibile era stata ormai spigolata e non restava che uscire alla grande di scena, al termine di una stagione conclusasi con la vittoria in Champions League nella finale-rivincita di Atene contro il Liverpool. Chapeau a un mito senza età!

Albertini: il metronomo del centrocampo

Demetrio Albertini, classe ’71, dirigente in campo e adesso approdato nel suo ruolo naturale, centrocampista di qualità e quantità, protagonista di uno dei Milan più forti e vincenti di sempre e capace di non sfigurare affatto al cospetto di giganti come Van Basten, Donadoni e Gullit. Con Maldini, Costacurta, Baresi, Tassotti, Massaro, Galli, Evani e altri, ha costituito la nutrita pattuglia rossonera in Nazionale, ottenendo un secondo posto sia ai Mondiali di USA ’94 sia agli Europei belga-olandesi del 2000. Avrebbe meritato almeno un trionfo, ma gli insuccessi non sminuiscono minimamente la sua grandezza e la sua naturale propensione a dirigere l’orchestra.

Massaro e Weah: il talento al servizio del Milan

L’uno, Massaro, classe ’61, dotato di un talento artigianale e raffinatosi solo grazie all’impegno e alla passione; l’altro, Weah, classe ’66, dotato di un talento immenso che gli ha consentito di diventare il primo campione non europeo a vincere il Pallone d’oro e il Fifa World Player pur non avendo conquistato nessun trofeo continentale, sono stati due dei tanti alfieri d’attacco che hanno reso felice per oltre un decennio la Milano rossonera.

Memorabile l’abnegazione del primo, memorabile il coast to coast del secondo contro il Verona, memorabili le squadre in cui hanno avuto la fortuna di giocare e che anche grazie a loro hanno arricchito in maniera incredibile una bacheca già ricca di coppe e di scudetti.

Sacchi: il Vate di Fusignano

Più che un allenatore, “l’Arrigo furioso” è stato un vate del calcio contemporaneo. Nato a Fusignano il 1° aprile del ’46, dunque fresco settantenne, come sempre al massimo della forma e pronto a dispensare lezioni a dritta e a manca, diciamo che è stato il Michels italiano, capace di introdurre nel nostro Paese il concetto olandese di calcio totale e di affidare a tre olandesi di grandissimo talento quali Van Basten, Rijkaard e Gullit il compito di fare proseliti nel resto della squadra. Il suo merito più grande, tuttavia, è stato quello di andare oltre la semplice emulazione del mito olandese del decennio precedente, grazie a una capacità innata di aggiornare e far vivere le idee nel contesto contemporaneo; il che ha trasformato il suo Milan in uno squadrone talmente gustoso e godibile che – racconta Valdano ne “Il sogno di Futbolandia” – un suo amico, durante la finale dell’89 al Camp Nou di Barcellona, a metà partita si alzò in piedi, si guardò la patta dei pantaloni ed esclamò: “Questo calcio fa godere: bisogna guardarlo col preservativo!”, aggiungendo che con un football così non c’è bisogno di donne.

4 a 0 allo Steaua Bucarest, 1 a 0 l’ano successiv al Benfica, un’egemonia lunga un quadriennio e un confronto col coltello fra i denti con il Napoli di Maradona e l’Inter del Trap. Poi per l’Arrigo si schiusero le porte della Nazionale e anche in azzurro il profeta di Fusignano, nonostante la frustrante sconfitta di Pasadena, ha scritto pagine memorabili della nostra storia calcistica.

Non è mai stato simpatico, ma non se ne è mai minimamente preoccupato.

Di Livio e Di Biagio: due soldatini a centrocampo

Di Livio e Di Biagio, ambedue romani, rispettivamente classe ’66 e classe ’71, ambedue onesti pedatori del centrocampo, macinatori di palloni e di chilometri, protagonisti nelle ispettive squadre, imprescindibili per ogni allenatore, dotati di poca classe ma capaci di compensare questa carenza con uno straordinario spirito di sacrificio, si può dire senza ombra di dubbio che siano stati entrambi l’affidabilità fatta persona.

Senza questi due onesti gregari, le varie squadre che hanno avuto la fortuna di averli nelle proprie fila avrebbero vinto molto di meno e sofferto molto di più.

Se a questo aggiungiamo la scelta di capitan Di Livio di seguire la derelitta Fiorentina di inizio secolo addirittura in C2, comprendiamo lo striscione che i tifosi della Fiesole gli dedicarono con orgoglio: “Sulla Terra è sceso un Angelo: grazie immenso capitano”.

Puskás, Di Stefano e Kopa: quell’abbagliante luce bianca

Una luce bianca, un’immensità costante, un’irripetibile macchina da gol, fautrice di spettacolo e bellezza: questo fu l’abbagliante Real Madrid del quinquennio ’55-’60, un capolavoro sportivo e politico che garantì a Franco un’immagine spendibile in ambito internazionale e ai madridisti una serie di gioie irripetibili, grazie alle reti e alla grandezza tecnica di questi tre furetti d’attacco, di cui quest’anno si celebrano, rispettivamente, i dieci anni dalla scomparsa, i novant’anni dalla nascita e l’ottantacinquesimo compleanno. E che Dio ci conservi ancora a lungo Kopa, ultimo superstite di quel meraviglioso trio: ne abbiamo un gran bisogno!

Ghiggia e Varela: i giustizieri del Brasile

Alcides Ghiggia, classe ’26, scomparso lo scorso anno alla veneranda età di ottantotto anni, e Obdulio Varela, classe ’17, spentosi esattamente vent’anni fa all’età di settantotto anni, furono due dei protagonisti della mitica finale del Maracanã, quando il Brasile entrò campione e uscì sconfitto per 2 a 1 grazie alle reti di Schiaffino e Ghiggia, le quali ribaltarono il vantaggio iniziale di Friaça. Un dramma sportivo, una tragedia nazionale, condita da suicidi e morti per attacco cardiaco nonché dalla scelta dei vertici pallonari di Rio di abbandonare la maglia bianca in favore, prima, di una maglietta azzurra con pantaloncini bianchi e calzettoni azzurri e poi della celebre divisa verdeoro, affinché il colore della tragica sconfitta fosse dannato e il suo effetto macumbero allontanato per sempre.

E se Ghiggia fu il giustiziere dei padroni di casa, rivendicando di essere stato l’unico, oltre a Sinatra e a papa Wojtyla, ad aver ammutolito il Maracanã (A sole tre persone è bastato un gesto per far tacere il Maracanã: Frank Sinatrapapa Giovanni Paolo II e io”), va detto che nulla sarebbe stato possibile se capitan Varela, non avesse, il giorno prima in albergo, pisciato davanti ai compagni su un giornale brasiliano che innalzava gli idoli locali al rango di vincitori annunciati e, in campo, tenuto a galla la squadra quando la sconfitta sembrava ormai sicura e irrimediabile.

Nella loro arte, nel loro coraggio e nella loro sfida al destino, sta il senso e la magia di questo sport e dello sport in generale.

Barbosa: la dannazione eterna

Riconosciuto colpevole del disastro, al pari del terzino sinistro Bigode, il povero portiere Barbosa (che se non se ne fosse andato nell’aprile del 2000, quest’anno avrebbe compiuto novantacinque anni), da quel maledetto 16 luglio del ’50 praticamente non visse più. A distanza di decenni, veniva ancora additato come il responsabile della disfatta, trattato malissimo e sottoposto a un calvario e a una dannazione che non è stata riservata nemmeno ai criminali nazisti.

La sua pena fu eterna, il suo dolore infinito, tragico, straziante, al punto che una sera organizzò un barbecue con gli amici per bruciare i pali della porta che avevano causato la sua condanna al disprezzo, ad un ludibrio insensato e feroce, ad una persecuzione eccessiva e immeritata, trattandosi comunque di un buon portiere e di una brava persona.

Oggi il Brasile può permettersi di subire un 7 a 1 in semifinale dalla Germania e uscire fischiettando; all’epoca no e il povero Barbosa ha pagato a carissimo prezzo la colpa di essere nato in un’epoca in cui il calcio per i brasiliani era davvero tutto e perdere non era consentito.

Romário e Havelange: i due volti del Brasile

Romário, classe ’66, figlio della favela di Jacarezinho, della miseria, della disperazione e dell’idea di un calcio romantico e unico strumento di riscatto per chi aveva la iattura di nascere in quell’inferno. João Havelange, classe 1916, cento anni compiuti lo scorso 8 maggio, una carriera da dirigente FIFA durata ben ventiquattro anni, una conduzione ai limiti dell’illecito e talvolta anche oltre, di cui gli scontri con Maradona costituiscono l’emblema e va detto che quasi sempre aveva ragione Diego a metterne in risalto l’indecenza.

Il Brasile povero che cerca riscatto sul campo e quello ricco e sprezzante che dirige dalla stanza dei bottoni, dai vertici delle organizzazioni internazionali e grazie a rapporti tutt’altro che limpidi con governi le cui mani talvolta grondano sangue.

Eppure hanno vinto molto entrambi perché il Brasile è anche e soprattutto questo: una festa genuina capace di trarre allegria anche dall’abisso e una terribile diseguaglianza. Sono i due volti di una Nazione intrisa di contraddizioni e di aspetti inquietanti.

Ronaldo, Rivelino e Ademir: tre giocolieri senza tempo

I primi due festeggiano, quest’anno, rispettivamente, quaranta e settant’anni, il terzo, che fu protagonista della tragedia del Maracanã in uno dei giorni più tristi della storia del Brasile, ci ha lasciato nel maggio di vent’anni fa.

Due attaccanti e un’ala sinistra: tre giocolieri inarrivabili, fra doppi passi, elastici e una miriade di gol che ha costituito la felicità scanzonata e genuina di tre generazioni di sportivi.

Impareggiabili nella loro arte di giocolieri al servizio della squadra, dignitosi nel loro declino e capaci, in tutti e tre i casi, di inventarsi una vita dopo il calcio. Hanno saputo ridere e piangere senza mai scadere nell’eccesso, il che non è da tutti.

Recoba: se ci avesse creduto, sarebbe stato Messi

Va bene Messi, va bene il Ronaldo fresco campione d’Europa col Portogallo dopo aver vinto la Champions col Real, va bene Ibra, va bene tutto, ma raramente abbiamo visto sui campi di calcio un talento cristallino come quello di Alvaro Recoba (Montevideo, 17 marzo 1976): un uruguaiano che se solo non avesse peccato di indolenza sarebbe stato, probabilmente, una sorta di nuovo Pelé.

Perché i colpi li aveva, dannazione se li aveva, in quel sinistro capace di telecomandare il pallone dove più gli aggradava, consentendogli di segnare su punizione o addirittura direttamente da calcio d’angolo e rendendo Moratti, che in fondo è un romanticone, felice di aver acquistato un genio che ha vinto meno di quanto avrebbe potuto ma che ha regalato agli spettatori di San Siro sprazzi di autentica arte.

Sprazzi, per l’appunto: se ci avesse creduto un po’ di più, due-tre palloni d’oro non glieli avrebbe tolti nessuno.

Piola e Rava: campioni indimenticabili

Silvio Piola da Robbio, nel pavese, di professione attaccante, scomparso il 13 ottobre di vent’anni fa dopo aver deliziato le platee di Pro Vercelli, Lazio, Torino, Juve e Novara, aver giocato fino a quarantuno anni (un record per l’epoca) e aver segnato duecentonovanta gol in Serie A, record tuttora imbattuto.

Pietro Rava da Cassine (Alessandria), classe 1916, di professione difensore, scomparso esattamente dieci anni fa, il 5 novembre 2006, è stato protagonista delle vittoriose spedizioni azzurre alle Olimpiadi di Berlino del ’36, di cui ricorre l’ottantesimo anniversario, e ai Mondiali francesi del ’38.

Calciatori eroici, pionieri di un tempo lontano ma indimenticabile, impresso nel cuore di tutti noi per la sua indescrivibile poesia mista all’epica e a quel pizzico di narrazione favolistica che non guasta mai.

Ondina Valla: e pensare che nacque Trebisonda!

Trebisonda Valla, così si chiamava questa splendida atleta bolognese, scomparsa a novant’anni il 16 ottobre del 2006, dopo essere stata protagonista alle Olimpiadi berlinesi del ’36 negli 80 metri ostacoli, prima donna a vincere una medaglia in una manifestazione di tale prestigio.

Deve questo nome strampalato all’amore di suo padre per la bella città turca e il nome d’arte al fatto che un giornalista, sbagliando, la chiamò Trebitonda, da cui Trebit-ondina e poi semplicemente Ondina, come l’abbiamo appellata tutti noi fino alla scomparsa.

Tale e tanta fu la gioia del regime fascista nel poter far propria la sua grazia e le sue vittorie che la stampa la ribattezzò “il sole in un sorriso”: e lo era, lo era davvero, con la sua signorile abilità nel vincere e nel ritirarsi con la medesima classe e semplicità,.

George The Best

Se non si fosse autodistrutto a forza di alcol, sperperi, donne, vizi ed esagerazioni, questo figlio dell’Irlanda del Nord e della Belfast operaia lo scorso 22 maggio avrebbe compiuto settant’anni.

In lui tutto è stato maledettamente precoce: la gloria e il declino, l’apice e la discesa agli inferi, il piedistallo e la sconfitta, la Coppa dei Campioni con annesso Pallone d’oro e l’addio al calcio, il girone dantesco in cui si è infilato da solo e la morte, a soli cinquantanove anni, avendo fretta anche di andarsene da un mondo dal quale ha avuto tutto e l’ha rifiutato.

Un Rimbaud del calcio, straziante nella grandezza e nel declino; uno dei più grandi e dei più sfortunati e autolesionisti talenti di tutti i tempi.

Tyson: disperazione, gloria e normalità

Mike Tyson è un figlio dell’America povera dei ghetti, della barbarie di Brownsville, della rabbia e dell’abbandono sociale nonché di un padre che se ne andò quand’era ancora piccolo e di una madre devastata dall’alcol e dalle amarezze della vita.

A dodici anni era stato già arrestato una trentina di volte e rinchiuso nel riformatorio dei non recuperabili ed è qui che la sua sconfinata abilità pugilistica ha trovato qualcuno disposto a scommettere su di lui e a dargli una possibilità, nella speranza di riuscire a tenerlo lontano dalla criminalità e dalla violenza.

Dotato di un fisico scultoreo, di una potenza esplosiva e di una ferocia senza eguali, è stato considerato a ragione uno degli sportivi più malvagi di tutti i tempi, per la sua condotta sia sul ring che nella vita, fra arresti per stupro, patrimonio dissipato, donne e figli a volontà, utilizzo di sostanze stupefacenti, il morso all’orecchio di Evander Holyfield e altre nefandezze.
Si è salvato per miracolo da una fine ingloriosa, simile a quella di Sonny Liston, altro figlio della disperazione e della povertà, e oggi sembra avere finalmente messo la testa a posto. Meglio tardi che mai, anche perché di fesserie ne ha già combinate veramente troppe.

De Zan, Cascioli e D’Aguanno: tre narratori indimenticabili

Concludiamo questa carrellata di omaggi e commemorazioni con il ricordo di tre grandi narratori dello sport, l’uno attivo soprattutto in ambito ciclistico, gli altri due in quello calcistico, come Adriano De Zan, scomparso il 24 agosto 2001, Alberto D’Aguanno, morto per un malore a soli 42 anni il 9 dicembre 2006, e Lino Cascioli, il quale ci ha lasciato nell’ottobre del 2011.
Non erano tre semplici cronisti ma tre protagonisti dello sport, tre personaggi capaci di creare un rapporto d’amicizia, di stima e d’affetto con chiunque incontrassero, tre figure che ci mancano soprattutto per le mille emozioni che ci avrebbero potuto ancora regalare con i loro racconti a metà fra l’analisi sportiva e l’epica collettiva e dei quali conserveremo sempre l’umanità, l’arguzia, la capacità d’analisi e il buonsenso: virtù rare, purtroppo, in una fase storica nella quale questo patrimonio di valori sembra contare sempre meno.

Mille modi per dire sport, nel trionfo di una passione autentica e, per nostra fortuna, destinata, nonostante tutto, a non esaurirsi mai.


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