Quando il treno si fermò alla stazione di Agrigento, con la locomotiva che andò ad urtare le balaustre di protezione, pensai: “Il treno ha battuto contro i confini del mondo, al di là dell’ignoto”.Era l’autunno del 1945 e la ventisettenne Vittoria Giunti inizia una nuova vita. La guerra finita era finita da poco e lei toscana, partigiana combattente prima a Roma, poi a Milano, Padova e Firenze dove era assistente di alta matematica all’università, arriva in Sicilia. Porta con se l’amore della sua vita, il partigiano raffadalese Salvatore Di Benedetto, offeso al volto dalla violenza del fuoco nemico, ed il figlio Alessandro appena nato. Ad aspettarla a Raffadali, a pochi chilometri dalla stazione di Agrigento, nessuna fanfara o festa, ma la faccia dura dei contadini e il velo nero delle donne siciliane. Quando una carrozza sgangherata la consegna sotto il palazzo di Montaperto, ed una zaffata di odore di zagara le raggiunge le narici, Vittoria capisce che c’era un altra guerra da combattere: quella per la dignità e per l’emancipazione femminile. Intuisce che i sistemi con cui aveva combattuto fino a poco tempo prima i nazi/fascisti, in quel luogo stuprato dal sapore amaro del latifondo, erano inutili. Doveva iniziare da zero, capire e farsi capire ed appena suocera “Mamma Dorina” la raggiunge, la spiazza immediatamente: “la prego m’ insegni”.
La Sicilia di quegli anni era martoriata da fame e miseria, la guerra aveva portato via gli uomini e le donne avevano dovuto supplire a tutto, senza un sorriso, con la faccia cotta dal sole e le mani talmente piene di calli da non poter neppure carezzare i figli. La guerra era finita, gli uomini, quelli che erano tornati, parlavano ancora meno di prima. L’unica cosa che era rimasta uguale era la fame. Per Vittoria le parole sono sempre state dei suoni, serviva altro per farsi capire. Inizia ad andare casa per casa, in quelle dimore dove spesso gli uomini dividevano il posto con gli animali, universi paralleli nei quali la luce del giorno non riusciva a penetrare. La risata solare della partigiana fiorentina doveva sembrare una nota stonata in quel silenzio indotto. Erano gli anni delle lotte contadine, dei 400 mila contadini in marcia per chiedere l’applicazione della legge Gullo, che mafiosi, militari e proprietari terrieri riuscivano a tenere inapplicata in terra di Sicilia. Gli anni della silenziosa guerra civile per la quale, nelle numerose famiglie contadine di allora, le strade dei fratelli spesso si dividevano, andando ad ingrossare le fila sia dei mafiosi che sparavano sia dei contadini che morivano. Vittoria non ci mette molto ad imparare il dialetto non scritto delle contrade, capisce che è il momento per le donne di abbandonare le case e di uscire per strada, di difendere la vita dei loro uomini e garantire il futuro dei loro figli. Ripeteva “le donne non hanno bisogno di molte parole, mettono lo scialle, escono e mobilitano interi quartieri”.
Così avvenne, le terre furono liberate, la dignità conquistata, restava la miseria, ma era nata la certezza che il futuro non era immutabile e che le cose, volendolo, potevano cambiare. Era la metà degli anni cinquanta e Vittoria, dieci anni dopo il suo arrivo, non era più una forestiera, ma parte integrante di una comunità, da pari. In quegli anni non aveva abbandonato il suo impegno nel mondo della cultura, aveva diretto “Noi Donne”, era stata presidente della Casa della Cultura di Milano, continuava a coltivare il suo amore per l’insegnamento, ma quando le fu proposto un nuovo impegno non esitò un attimo. Era il 1956 ed a Santa Elisabetta, piccolo borgo della vicina Aragona che proprio in quella tornata elettorale diventava comune, serviva qualcuno che si prendesse la responsabilità d’indossare per la prima volta la fascia tricolore. Vittoria chiede l’unità degli alleati “se devo essere il primo cittadino, come tale lo devo essere di tutti”; è eletta, tra la gioia delle donne e la diffidenza di alcuni uomini. Primo sindaco donna comunista in Sicilia, terza in Italia. Esattamente sessanta anni fa. E Vittoria, come promesso, fu il sindaco di tutti, degli uomini e delle donne, dei contadini e dei borghesi, trasformando una serie di singoli bisogni in un corpo unico e indissolubile. Fu un Sindaco antimafia, perché impose al centro del suo mandato il valore della solidarietà contro l’individualismo. E quando decise che poteva bastare, in consiglio comunale il segretario socialista Catalano la prego di restare perché era stata il Sindaco della “comunità”. Vittoria non lo fece. Era l’inizio degli anni sessanta, il marito Totò Di Benedetto era da qualche anno diventato il Sindaco di Raffadali, uomo di grande carisma, scrittore e poeta capace di far nascere dalle parole “fiamme e serpenti”, che lungo gli anni diventerà prima deputato e poi senatore.
Vittoria tornò ad insegnare, sempre in viaggio tra la Sicilia e Roma. Non fece mai mancare, però, neppure per un giorno, la sua presenza tra la gente, respiro tra i respiri di un popolo che cominciava a crescere e formarsi nelle libertà e nella cultura. Sempre un passo indietro, mai proscenio, ma pronta ad aiutare nei momenti di scoramento ed abbandono. Quando nel 1967 Ernesto Guevara è ucciso in Bolivia, nel silenzio della Federazione di Agrigento la voce che si alza per dare la notizia è la sua: “Il comandante Guevara è morto, ma combattendo”. Negli anni a seguire Vittoria segue l’onda del tempo, salda ancora di più il suo rapporto con la gente. Ascoltando i racconti delle donne agli angoli delle strade, la partigiana toscana sembra essere ovunque, con la voce calma, sempre pronta ad incitare e trasmettere i valori che hanno rappresentato la storia della sua vita: giustizia sociale, emancipazione, libertà, conquista dei diritti. Senza mai mollare un attimo. Neanche quando al tramonto della sua vita, alla fine degli anni novanta, tutto quello che aveva costruito sembra crollare come sabbia d’innanzi l’arrivo del nuovo nemico e della ventata di mafiosità che portava con sé: Salvatore Cuffaro. Vittoria non si arrende, prende con sé un gruppo di ragazzi sbandati. Non la “meglio gioventù” intellettuale, ma un branco di randagi da capelli lunghi, mani callose e cuore saldo. Semi analfabeti politicamente e giornalisticamente, ma ai quali fece fondare un giornale, AdEst, perché la Costituzione Italiana ed il suo splendido articolo 21 erano un faro nella notte della regione. Non li abbandonò mai, nonostante gli anni e la malattia picchiassero come fabbri, li protesse, li ispirò, gli insegnò ad essere uomini degni di questo nome, tutto il resto fu stretta conseguenza. Il primo maggio 2005, quando la polizia si schiera tra i padroni, e i mafiosicchi che li scortavano, ed i suoi ragazzi che volevano semplicemente sfilare, lei scende tra loro nonostante la dialisi, nonostante gli 88 anni, nonostante nessuna ragione logica la tenesse in piedi. Era leggera come la volontà fatta carne. Una forza non sprigionata da muscoli, ma dalla coerenza, dalla fermezza di un’idea che non si piega alle ragioni del momento. Vittoria si appoggiò ai suoi ragazzi, alla sua gente, inizio a camminare verso il cordone delle forze dell’ordine, questo si aprì, omaggiando la partigiana, i ragazzi passarono. Avevano vinto, solo che ancora non lo sapevano. Avrebbero dovuto attraversare altri sei anni d’inferno, tra intimidazioni, minacce, silenzio, abbandono e servi sciocchi. Avrebbero dovuto assistere anche alla perdita di Vittoria che un anno dopo, poche ore dopo il 2 giugno, festa della Repubblica che lei aveva contribuito a realizzare, avrebbe chiuso gli occhi. Ma le ultime parole erano state ancora per i suo “randagi” che considerava folli come gli eroi del rinascimento: “Vedete, resisto io in queste condizioni, dovete resistere anche voi”. E l’invito era di affrontare la vita come lei aveva affrontato la guerra partigiana: con la forza della ragione ed il coraggio dell’utopia.
I ragazzi vinsero: Cuffaro finì in carcere e loro poterono festeggiare un nuovo 25 aprile dedicandolo alla loro “rivoluzionaria gentile”. Ma Vittoria non era mai andata via. Le sue parole sono diventate un libro, e quel libro “Le Eredità di Vittoria Giunti” ha viaggiato come lei, indipendente e libero, in giro per tutto il paese, costruendo amicizie, abbassando muri, tessendo reti e tessuto sociale. Dieci anni sono passati dal giorno della sua morte, sessanta da quando indossò la fascia tricolore, settanta quando, da protagonista, mise sulle strade di Palermo al figlio la coccardina della Repubblica, settantuno da quando preferì alle asettiche stanze dell’università di Firenze le strade terrose di Sicilia. Ma non sembra passato un giorno, perché Vittoria è diventata un bene comune di uomini e donne che guardando alla sua storia non possono che pensare che Resistenza ed antimafia sono battiti dello stesso cuore. Moni Ovadia descrivendo il canto partigiano “Bella Ciao” usa queste parole: “E’ un bene immateriale che agisce sulla coscienza come qualcosa che arriva da lontano, quasi a segnare il confine tra il buio della guerra e una nuova primavera dei popoli: un’elegia del presente, che è anche, e sempre, una continua rinascita della storia della libertà”. Se ci pensate bene le stesse identiche parole possono essere usate per descrivere Vittoria Giunti. “La rosa è viva e certamente dopo la neve fiorirà”.