Nella mia memoria rimane nitido e prezioso il ricordo del giorno in cui Santo Della Volpe, instancabile sostenitore di tutti quei giornalisti impegnati in prima linea in terre di mafia, mi parlò del “caso giudiziario” di Rino Giacalone. L’accusa pubblica e privata chiedeva la condanna per diffamazione di questo coraggioso cronista di Trapani perché, con un post pubblicato all’indomani del decesso per cause naturali del capomandamento di Mazara del Vallo, ne aveva puntualmente ricostruito la sanguinosa storia criminale ed aveva concluso il pezzo parafrasando l’invettiva di Peppino Impastato: «oggi bisogna dire che la sua morte toglie alla Sicilia la presenza di “un gran bel pezzo di merda”». Una frase obiettivamente e consapevolmente sferzante che confligge con ogni parvenza di compromesso morale e con quell’antico luogo comune per cui “de mortuis nihil nisi bonum” (dei morti non si può che parlare bene). Una vera e propria scelta di campo fra ogni più conveniente soggezione ad un’ipocrita pietas e l’esercizio di un diritto di cronaca e di critica che non ammette, nella professionalità di un giornalista dalla “schiena dritta”, la minimizzante indulgenza dei falsi eufemismi.
Il Tribunale di Trapani, con sentenza del 7 giugno 2016, valorizza l’opzione deontologica di Rino Giacalone, riconoscendo come «le espressioni denigratorie oggetto di contestazione rispondano comunque a una logica di interesse pubblico» per cui devono ritenersi giustificate, alla stregua dei princìpi costituzionali e del disposto di cui all’art. 51 del codice penale. La pronuncia in esame coglie in pieno la portata provocatoria (nel senso più nobile del termine) dello scritto giornalistico, sottolineandone la valenza per certi versi “pedagogica” che è tale da integrare una scriminante meritevole di apprezzamento giuridico. Come opportunamente evidenzia il giudicante, la nota di Giacalone, scevra da ogni velleità di offesa gratuita, impone al lettore di confrontarsi con il sistema pseudo-valoriale proposto dall’associazione mafiosa, «in un contesto ambientale nel quale la confusione (apparente coincidenza) tra valori e dis-valori costituisce un obbiettivo preciso del sodalizio criminoso: obbiettivo, questo, da realizzarsi anche attraverso le mistificazioni di concetti/nozioni/atteggiamenti generalmente condivisi dalla comunità e la cui finalità ultima è quella di rinforzare gli spazi di efficienza dell’associazione nei territori in cui opera».
Ovviamente non è sfuggito al giudice il profondo turbamento che l’affermazione conclusiva del post di Giacalone può causare nella sensibilità di taluni. Ma è proprio questo l’elemento che, in diritto, vale a giustificare l’irriverente affermazione. «L’utilizzo di espressioni come quelle impiegate dal Giacalone (“gran bel pezzo di merda”) costituisce – anche secondo il Tribunale – uno strumento retorico in grado di provocare nel lettore un senso di straniamento, che lo interroga sulla validità delle prospettive tradizionali, e ciò allo scopo di sollecitarlo ad una nuova consapevolezza della necessità di sradicare ogni ambiguità nella scelta tra contrapposti (seppur artatamente confondibili) sistemi valoriali». Senz’altro prive di ogni leziosità letteraria, le parole contestate al blogger siciliano, proprio in ragione della loro innegabile volgarità, arrivano dirette alle mente ed all’anima di chiunque. E valgono a scuotere ogni coscienza.
Anche questo è un dato che assume enorme rilevanza sotto il profilo giuridico. «Nel contesto sociale in cui operava il Giacalone, l’artifizio retorico-denigratorio da lui utilizzato – proprio per la sua appartenenza ad un registro linguistico “basso” – appare quello più efficace a innescare un percorso di consapevolezza in un più elevato numero di persone, poiché in grado di produrre i suoi effetti anche (e soprattutto) in coloro che, per intrinseci limiti culturali, si trovano più esposti al rischio di confusione tra valori e dis-valori: rischio che, come già chiarito, costituisce l’effetto di una precisa strategia dell’associazione mafiosa». Ha fatto correttamente il suo lavoro, il giornalista Rino Giacalone. Lo ha fatto senza infingimenti, senza deroghe, in coerenza con il suo stile ed il suo rigore etico. Oggi lo riconosce espressamente, all’esito di una esperienza giudiziaria comunque afflittiva, il Tribunale penale di Trapani. Santo Della Volpe ha sempre confidato in una simile pronuncia.
Questa sentenza dà ragione anche a lui ed alla sua lezione di giornalismo che non tollera l’ignavia.