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Turchia: “propaganda terroristica”. Mandato di arresto per il giornalista Erol Önderoglu

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Gli attivisti di Reporter sans frontières avevano definito per primi la Turchia “la più grande prigione al mondo per giornalisti”: oggi il suo rappresentante nel paese di Erdogan da più di 20 anni, Erol Önderoglu (nella foto), è stato raggiunto da un mandato di arresto preventivo firmato dal Tribunale di Istanbul, insieme a Sebnem Korur Fincanci, docente universitaria e presidente della Fondazione dei Diritti dell’Uomo (Tihv) e allo scrittore Ahmet Nesin. L’accusa è quella che sempre più colpisce giornalisti e intellettuali che denunciano gli attacchi dell’esercito turco alla popolazione curda nel sud-est del paese: “propaganda terroristica a favore del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk)”. I tre nei mesi scorsi hanno sostenuto una campagna di solidarietà per il quotidiano filo-curdo Ozgur Gundem. Dopo averne assunto simbolicamente la direzione, erano stati incriminati.

Nel pomeriggio è arrivato il verdetto, definito da Rsf su Twitter “Una decisione vergognosa e aberrante. Incredibile picco negativo per la libertà di stampa in Turchia”, già al 151esimo posto su 180 nella lista stilata dall’organizzazione. Fuori dal tribunale, un centinaio di sostenitori urlavano: “Non cederemo alle pressioni”. Uno slogan a cui ha subito risposto Can Dundar, direttore di Cumhuriyet – su cui pendono due richieste di ergastolo con l’accusa di rivelazioni dei segreti di Stato per aver pubblicato un’inchiesta su un passaggio di armi in Siria scortato dai servizi segreti turchi –: “Non è questione di cedere alle pressioni. È che dobbiamo subito riprendere la battaglia e sostenere Özgür Gündem”. Un appello a cui le organizzazioni italiane dei giornalisti dovrebbero immediatamente aderire, perché nonostante procedano le trattative sulla gestione dei profughi e sull’accelerazione delle procedure per i visti tra Turchia ed Europa, non si registra alcun miglioramento sul versante dei diritti civili.
Negli ultimi tre giorni a Istanbul si è registrato l’ennesimo picco di violenza: la polizia ha impedito una manifestazione del Gay Pride con lancio di lacrimogeni e proiettili di gomma contro 300 persone che pacificamente protestavano contro l’estremismo islamico, impedendo poi a giornalisti di raggiungere Piazza Takism, come ai tempi di Gezi Park. L’uso della forza contro qualsiasi manifestazione è diventata una routine.

E sempre ieri 11 profughi sono stati uccisi ai confini tra Turchia e Siria – tra Hatay e Khirbet al Jouz -; 4 erano bambini. Stavano cercando di attraversare la frontiera per fuggire alla guerra. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani – un’organizzazione umanitaria con sede in Gran Bretagna – a sparare sono state le guardie di confine di Ankara. I militari turchi negano – attraverso un comunicato – di aver aperto il fuoco direttamente sulle persone, sostengono che il gruppo, dopo alcuni spari di avvertimento in aria, è scappato nella foresta.
Il vero dramma è che nessuno sa cosa stia davvero accadendo, in quelle terre della Turchia ai confini tra Siria e Iraq. C’è la guerra civile tra i curdi e l’esercito turco (anche se nessuno vuole chiamarla con questo nome). Ci sono i massacri dell’Isis nei confronti della popolazione siriana e irachena. Ma non esistono fonti indipendenti a raccontarli. Molti giornalisti sono stati arrestati perché documentavano la strage di civili curdi durante il coprifuoco di Ankara. Altri, fuggiti dalla Siria per documentare le stragi del Califfato, sono finiti ammazzati. A fine dicembre, a Gaziantep, città turca ai confini con la Siria, è stato freddato con un colpo alla testa in mezzo alla strada, Naji Jerf, giornalista siriano che faceva parte del collettivo “Raqqa has been slaughtered silenty” (Raqqa viene massacrata in silenzio). Qualche giorno fa, a Urfa, qualcuno ha sparato al suo fondatore, Ahmad Abdelkader. Le sue condizioni ora sono stabili, ma è vivo per miracolo. Qualche mese fa, a Raqqa, l’Isis aveva decapitato suo fratello. In nessuno dei casi è stato individuato l’assassino. Come ancora non si conosce qual è la mano che ha ucciso, a fine novembre, Tahir Elci durante una conferenza stampa in cui chiedeva a Erdogan di sospendere le operazione militari nelle città curde. D’altronde, nessuno aveva mai raccolto i bossoli a terra.


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