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Egitto: solo la grazia di Al Sisi può salvare i giornalisti Saplan, Helal e al Khatib dalla condanna a morte per spionaggio

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L’ultima speranza che la sentenza di morte per tre giornalisti di Al Jazeera in Egitto, confermata sabato scorso in secondo grado, è ‘appesa’ alla grazia presidenziale. L’appello ad Abdel Fattah al Sisi è già stato lanciato, nonostante appaia alquanto improbabile che le sei condanne su cui si è espresso con durezza il Gran Mufti Mohamed Shawki Alam, la più alta autorità religiosa del paese che ha emesso anche un nuovo giudizio nei confronti dell’ex presidente egiziano Mohammed Morsi, possano essere tramutate in carcere a vita. Questo, infatti, è il massimo che possano ottenere gli imputati in caso di clemenza.
Tentare è però un obbligo morale.
La pena capitale, oltre che sul direttore dell’edizione giordana della tv satellitare Alaa Saplan e il suo collega Ibrahim Helal, pende anche sulla giornalista dell’emittente filo-islamista “Rasd”, Asmaa al Khatib, sul regista di documentari Ahmed Afifi, sul docente universitario Ahmed Ismail e su un funzionario di Egyptair, Mohamed Adel.
I primi due sono stati giudicati in contumacia mentre la Khatib rischia seriamente di essere giustiziata essendo, insieme ad Afifi e Adel, nelle mani delle forze governative.
Secondo l’accusa tutti loro sono responsabili di crimini che avrebbero messo in pericolo la sicurezza interna “rendendo il paese vulnerabile a grandi pericoli”, come si legge nella sentenza.
Pochi giorni prima il tribunale penale del Cairo aveva già condannato all’ergastolo altri imputati coinvolti nello stesso processo, tra cui Morsi, l’ex segretario del presidente, Amin al Serafi, e il direttore del suo gabinetto Ahmed Abdul Atty.
Per Serafi, inoltre, sono stati aggiunti ulteriori 15 anni di carcere, pena prevista anche per sua figlia, che avrebbe “facilitato la diffusione all’estero di informazioni segrete”.
Secondo i giudici, l’ufficio internazionale dei Fratelli musulmani ‘ordinò’ all’ex presidente di passare al Qatar tutti i documenti riguardanti le attività militari e d’intelligence dell’Egitto, compresi quelli relativi ai movimenti delle forze impegnate nella Penisola del Sinai, la politica estera e altre questioni in materia di difesa. Morsi avrebbr chiesto a Serafi e Atty di realizzare un dossier da passare poi, con l’aiuto di altre figure finite alla sbarra, al corrispondente di Al Jazeera al Cairo.
Saplan avrebbe agito per denaro. Il teorema dell’inchiesta ruota intorno a un presunto compenso di un milione di dollari per ‘passare’ a un funzionario dell’intelligence di Doha i segreti militari egiziani.
Seppure le prove contro di lui siano sempre apparse lacunose, la teoria dell’accusa è stata accolta in pieno al processo e per il giornalista e le altre persone coinvolte si è aperta la porta per l’inferno: se non arriverà la grazia di al-Sisi sono tutti detinati al patibolo.
Se questo percorso giudiziario e l’uso della condanna a morte appaiono chiaramente l’arma di un regime autoritario, lo sono altrettanto le ‘sparizioni’ forzate e le detenzioni ingiuste e senza reali capi di imputazione.
Per denunciare ancora una volta le continue violazioni dei diritti umani e i soprusi delle autorità e dei servizi segreti, attivisti, avvocati e militanti hanno postato sui social network una serie di fotografie provocatorie che li mostrano dietro sbarre simboliche.
L’iniziativa è stata lanciata per chiedere che si ponga fine al fenomeno sempre più diffuso della detenzione in cella di isolamento dei detenuti politici.
Le foto sono state raccolte nell’ambito di una campagna partita il 12 giugno, che invita i familiari dei detenuti sottoposti a tale regime ad alzare la voce e a presentare denunce al Parlamento e al procuratore capo contro l’autorità che gestisce le prigioni.
I regolamenti carcerari dell’Egitto prevedono che “tale forma di carcerazione debba essere usata solo come misura disciplinare non superiore ai 30 giorni”.
Tuttavia, alcuni detenuti politici, sono sottoposti a tale regime per periodi molto più lunghi.
“Una punizione che non dovrebbe mai diventare una pratica standard” ha denunciato l’avvocato per i diritti umani, Mohammed Abdel-Aziz.
L’iniziativa è stata ispirata dal caso di un altro legale, Malek Adly, che ha trascorso la maggior parte della sua reclusione, circa sei settimane, in isolamento.
Gli attivisti hanno anche riferito del caso di Ahmed Douma, figura emblematica della rivolta popolare del 2011, che stando ai suoi difensori “è isolato da tutto e tutti da circa due anni”.
L’attivista sta scontando una condanna a 25 anni per avere preso parte – secondo l’accusa – alle rivolte pro-Morsi nel centro del Cairo. E come lui molti altri che, giorno dopo giorno, vedono violati anche i più basilari diritti, fino a subire violenze e sevizie inaudite.
Come è avvenuto per il nostro Giulio Regeni, torturato fino alla morte senza un vero perchè.
Per lui e per tutti i ‘Giulio’ d’Egitto continua la ricerca della verità e il 25 e 26 giugno, a cinque mesi dalla sua scomparsa, supporteremo Amnesty Italia che rilancerà su Twitter la campagna “Verità per Giulio Regeni”, condivisa e sostenuta dai genitori del ricercatore italiano ritrovato morto il 3 febbraio in un fosso ai margini di una strada di periferia della capitale egiziana.
Paola e Claudio Regeni mai smetteranno di ‘pretendere’ risposte sulla fine del figlio. E noi con loro. Sempre.


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