Per molti uomini, la fine di una relazione con una donna è vissuta come un adulterio bianco.
Dove la compagna umiliata decide di lasciare il proprio aguzzino, per scappare con la propria dignità.
Un tradimento senza neanche un amante, ma punibile per il solo fatto di mettere in discussione il diritto di proprietà del maschio-padrone. Giustificato da secoli di sottomissione benedetta dalle religioni e dalla stessa natura che ha voluto l’uomo più forte della donna.
Così, il femminicidio che spesso ne consegue è una variante del delitto d’onore, nella cultura ancora malata di chi pensa la coppia sia l’unico enclave dove ancora regni la legge del più forte. E che la donna sia una parte – una costola – dell’uomo.
Dietro a questa patologia della relazione c’è un deficit di autostima proprio del maschio violento. Che uccide non per l’abbandono in sé, ma perché ritiene insopportabile la conferma della propria latente mancanza di autoconsiderazione.
Occorre educare i giovani alla propria autostima e definire un tabù inviolabile la violenza verso le ragazze. Ma questa azione ha bisogno di un contesto culturale coerente. Infatti non è possibile affermare il rispetto della donne – la debolezza fisica di genere – dove non si rispetta la debolezza sociale dei più poveri, anziani, malati, senza istruzione. Solo con la pedagogia della dignità estirperemo la violenza di genere.
E tutte le altre.
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