[Traduzione a cura di Benedetta Monti, dall’articolo originale di Janina Pescinski pubblicato su openDemocracy]
Il costante flusso di migranti e rifugiati nel Mediterraneo ha comportato una crisi sulla gestione degli immigrati in Europa. I confini sono considerati come la prima linea difensiva per risolvere il problema e tenere fuori gli immigranti, da qui la chiusura della Fortezza Europa. I singoli Stati europei hanno attuato diverse politiche per chiudere i propri confini nel tentativo di respingere gli immigrati. L’Ungheria, ad esempio, ha costruito un muro lungo il confine meridionale, l’Austria ha seguito la stessa tendenza erigendo barriere ai valichi di frontiera e il confine tra Grecia e Macedonia è stato chiuso, lasciando più di 50.000 immigrati bloccati nel Paese.
Ma quando si crea un impedimento ad un ingresso, il confine da attraversare viene semplicemente spostato. Le rotte via terra che attraversano i Balcani sono state interrotte e la Grecia non rappresenta più un possibile punto di ingresso a causa del patto tra Unione Europea e Turchia. Sebbene i responsabili politici possano aver pensato che in tal modo gli immigrati sarebbero stati scoraggiati, la realtà mostra invece che quei disperati riescono a trovare nuove rotte e nuove strategie, con potenziali gravi ripercussioni. Se ne sono già visti i risultati nel Mediterraneo: per aggirare i confini chiusi, vengono aperte nuove rotte per attraversare il mare e arrivare in Italia. La perdita di vite umane è enorme, lo abbiamo verificato quando 500 persone sono affogate nel Mediterraneo.
La chiusura dei confini ha anche un’altra conseguenza: la crescita del mercato per i trafficanti. Il traffico di clandestini è un business: i trafficanti forniscono servizi per aiutare le persone ad attraversare i confini dietro compenso. Contrariamente alla politica dell’Unione Europea che inquadra il traffico di clandestini tra le cause dell’immigrazione che può, e deve, essere combattuto con l’aumento dei controlli ai confini e la vigilanza, il traffico di clandestini rappresenta una reazione per aggirare proprio tali controlli, come confermato da moltissime testimonianze di coloro che sono intervenuti alla Human Smugglers Roundtable di openDemocracy (“Tavola rotonda sui trafficanti di esseri umani”NdT).
La retorica che giustifica le politiche immigratorie di esclusione diventa un circolo vizioso nella mente dell’opinione pubblica: la chiusura da parte dei Governi dei propri confini per tenere lontani gli immigrati, costituisce la conferma dell’opinione degli Stati, e cioè che tali individui siano persone “indesiderate”. Questo aumenta fenomeni come la xenofobia e il pregiudizio, nonché accelera i tentativi quasi disperati degli immigrati di “entrare a qualsiasi costo”. E questo oltre ad alimentare la paura e il pregiudizio, giustifica il prossimo ciclo, più severo, di politiche sull’immigrazione.
Il problema costituito dai confini
Gli attuali tentativi dell’Europa di controllare l’immigrazione sono imperniati sulla considerazione del confine come barriera, ma il concetto stesso di “confine” non è unico e nemmeno statico.
La concezione dei confini e la loro gestione è cambiata nel corso della Storia, come rivela anche una mostra in corso al museo della storia dell’immigrazione in Francia. Nell’allestimento i confini sono considerati come entità immaginarie, costruzioni politiche, elementi per definire le identità, e si riflette su come essi siano stati stabiliti per i timori di alcuni gruppi di persone, nonché come creino o aumentino le paure verso gli altri gruppi. In questo modo la mostra pone una domanda importante riguardo ai confini, ma allo stesso tempo, involontariamente, rafforza alcune conseguenze che ne derivano. Ad esempio, fa riferimento ad alcuni immigrati chiamandoli “illegali”, termine che rafforza l’idea che l’immigrazione non autorizzata costituisca un crimine per definizione e che chiunque intraprenda uno spostamento non autorizzato è un criminale. Infine, la mostra sollecita una riflessione: che aspetto avrebbe un mondo senza confini?
I confini non si applicano in modo universale a chiunque. Ad alcune persone è concesso attraversarli, altre sono respinte. I visti sono concessi sulla base di fattori quali la nazionalità, lo status economico, o il livello di educazione, che, considerati complessivamente, rendono alcune persone “desiderabili” e quindi degni di attraversare un confine senza problemi. Per questi pochi fortunati il mondo è quasi senza confini, mentre per la maggioranza delle persone che non sono in possesso di tali privilegi i confini sono fin troppo reali. Non si tratta solamente di un sistema arbitrario ingiustificato, ma anche mutevole. La linea di demarcazione tra le persone “desiderate” e “indesiderate” (come definite dai ministeri degli Esteri) si sta spostando, come testimoniano il graduale processo di allargamento dell’Unione Europea e la possibilità di un’uscita dell’Inghilterra dall’Unione.
Quando uno Stato istituisce confini più rigidi, non sta eliminando quello che è dall’altra parte, al contrario ci si sta legando in modo permanente. Le politiche restrittive richiedono un’applicazione continua, i muri e i recinti richiedono il loro mantenimento e pattugliamento e questo esige un flusso continuo di risorse finanziarie. Nell’ultimo accordo con la Turchia, la Grecia e l’Unione Europea non si sono sbarazzate delle persone al di là del confine, ma hanno legato il proprio destino alla Turchia in un modo che esige una cooperazione e dialogo costante con chi è dall’altra parte. In questo modo i confini non rappresentano una netta divisione, ma piuttosto un punto di contatto.
I confini come un luogo di speranza
Il rafforzamento dei confini, in parte, è una conseguenza dell’aumento della protezione dall’immigrazione. L’intero sistema si basa su una visione dell’immigrazione disumanizzata: coloro che attraversano i confini non sono esseri umani, ma dei numeri. L’immigrazione non deve essere affrontata come una minaccia alla sicurezza – al contrario potrebbe essere vista come un impegno umanitario. Un approccio umanitario all’immigrazione, infatti, porrebbe il lato umano di ogni individuo al centro della politica sull’immigrazione, riconoscendo e tutelando i diritti umani degli immigrati.
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani garantisce ad ogni persona il diritto di lasciare il proprio Paese e il diritto di chiedere asilo, ma non il diritto parallelo di essere accolti in un altro Stato. A fronte del numero di persone che dichiarano di volersi avvalere del diritto di lasciare il proprio Paese o di chiedere asilo, è dunque compito dei Governi europei suggerire una risposta umanitaria relativa all’ospitalità piuttosto che all’ostilità.
Gli immigrati stessi immaginano i confini dell’Europa come un luogo di speranza. La speranza degli immigrati è dimostrata dal loro rifiuto di abbandonare le zone di confine e di transito, mantenendo viva la speranza che alla fine potranno attraversarli per raggiungere la vita migliore che li attende dall’altra parte.