L’eleganza del doppio turno. Non bisogna farsi sviare dalle apparenze e dal clamore mediatico. Bisogna assaporare lentamente il tempo che abbiamo a disposizione. In una selva di sistemi elettorali pieni di aculei, spesso avvelenati, come nel caso dell’ex Porcellum, il sistema a doppio turno per l’elezione dei sindaci ha una sua intima eleganza. E’ elegante perché ci dà il tempo per riflettere in una sorta di dialogo interiore e collettivo. Ci permette di mandare alla “casta” messaggi più articolati, punire e premiare, nel caso che siano stati recepiti o ignorati.
Grazie al doppio turno il regno del possibile, e quindi della libertà, si allarga per almeno 15 giorni, e così possiamo giocare ancora un po’ sugli universi che possiamo contribuire a creare o a distruggere.
Al primo turno, molto spesso, si vota l’appartenenza, anche se si tratta di partitini o di formazioni che raccolgono i voti di una famiglia allargata.
Il secondo turno, salvo i casi sempre più rari nelle grandi città, che un candidato raggiunga il 50% più uno, lo scenario diventa dilemmatico (direbbe Macchiavelli): o questo o quello, senza più mediazioni o compromessi.
Certo, come avrebbe sostenuto il grande Massimo Catalano, principe della banalità filosofica negli anni di “Indietro tutta”, è meglio essere in testa al primo turno, specie se con un grande margine di voti, che in grave svantaggio. Ma a disturbare i sogni e le speranze della giovane Raggi a Roma, di Fassino a Torino e di Merola a Bologna e forse di Dipiazza a Trieste, c’è il fantasma di Rutelli, anche lui sindaco di ritorno, che nel 2008 era uscito dal primo turno con il 46% dei consensi e poi battuto da Alemanno, che andrà a schiantarsi contro Mafia Capitale. I secondi arrivati al primo turno si possono aggrappare all’esempio di Federico Pizzarrotti, allora orgoglio del M5S, entrato nel ballottaggio con il 19,47%, contro il 39,20 di un notabile del Pd, e poi vincitore con un clamoroso 60,22 %.
Ma Trieste, a suo modo, è sempre un po’ speciale. Al ballottaggio non si presentano il vecchio e il nuovo, il giovane e il vecchio, l’esperto contro il novellino, ma due (più o meno ex) sindaci.
A Trieste il dilemma che si pone a un elettorato forse un po’ distratto dal lungo ponte del 2 giugno, è tra due ex sindaci che sul piano caratteriale sono agli antipodi. Dipiazza è radicato nel cuore di un pezzo importante dell’elettorato triestino e con una certa astuzia comunicativa, del tutto spontanea, ha raccontato, anche con foto “casalinghe”, soprattutto se stesso e il suo privato, fatto di un nuovo amore e di affetti più antichi (per il suo fedele cane Ted). Sul piano politico ha fatto un piccolo capolavoro ricomponendo un centro destra che sembrava a pezzi e recuperando preziose alleanze, in particolare con Giulio Camber.
Roberto Cosolini è sicuramente più irsuto, gran lavoratore, ma poco incline a raccontare in modo accattivante i risultati di quanto ha fatto, dal Porto vecchio al turismo. A Trieste, a causa della sua composizione demografica, il M5S è andato bene, ma non benissimo ed ha mancato il ballottaggio, che alcuni sondaggi rimasti “coperti” sembravano garantirgli e adesso i suoi voti sono “in libertà”, tra l’uno e l’altro o per nessuno dei due.
Dipiazza, probabilmente ha fatto il pieno dei voti, mentre Cosolini forse ha pagato la crescente ostilità di parte della sinistra nei confronti di Matteo Renzi, e così molti hanno votato per qualche microformazione di estrema sinistra o per il M5S, che si presenta come autentico antagonista della “casta” del Pd, o si sono astenuti.
A Dipiazza, probabilmente, basta restare acquattato dentro il suo consistente gruzzolo di voti, magari assestando qualche colpo all’avversario. Cosolini, invece, dovrebbe avere uno scatto di orgoglio, spiegare meglio la sua idea di città e persuadere i distratti, i pigri e i dispettosi, ma non sarà facile.
E allora? “àle àle, done che il sol magna le ore… se pol o non se pol? ben bon indifferente, tanto tra un poco vederemo…”.
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