Di Pino Salerno
Li ha battuti tutti, o quasi. È questo in estrema sintesi lo schema delle 19 vittorie riportate dal Movimento 5stelle nei venti comuni in cui è andato al ballottaggio. Abbiamo controllato: tranne che nel comune di Alpignano, in provincia di Torino, 14.500 elettori, negli altri 19 comuni ha battuto il centrosinistra unito, il Pd alleato con liste civiche, la Lega, il centrodestra unito, la concentrazione di liste civiche. Il vento grillino è spirato forte ovunque il 19 giugno, e su questo occorre riflettere, perché al di là delle due vittorie storiche di Roma e Torino, il movimento si è scontrato e vinto ovunque, presentandosi ovunque da solo, senza apparentamenti, né al primo, né al secondo turno. Inoltre, come è facilmente verificabile sul sito del Ministero dell’Interno, nei 19 comuni dove ha vinto al ballottaggio, il balzo in avanti dei voti è stato mediamente tra il 40 e il 50% rispetto al risultato del primo turno.
Da oggi il M5S governa oltre a Roma e Torino, in altri 17 comuni
I comuni governati dai 5 Stelle da oggi sono i seguenti: Roma, Torino, Alcamo, Anguillara Sabazia, Carbonia, Castelfidardo, Cattolica, Chioggia, Favara, Genzano di Roma, Ginosa di Puglia, Marino, Nettuno, Noicattaro, Pinerolo, Pisticci, Porto Empedocle, San Mauro Torinese, Vimercate. In dieci comuni il candidato pentastellato ha vinto contro lo sfidante del Centrosinistra, in tre ha battuto il centrodestra unito, in due casi la Lega, negli altri casi coalizioni di liste civiche. Insomma, non ce n’è stato per nessuno sfidante. Questa è la tendenza generale che ci consegna il voto del 19 giugno. È pur vero che si votava in più di 1300 comuni, ma la gran parte erano al di sotto dei 15mila abitanti, con liste civiche che si sono confrontate a turno unico. Su 8.600.000 elettori, più dei due terzi erano concentrati nelle 5 grandi aree metropolitane di Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna. A Roma e Torino, dov’erano presenti, hanno vinto i penta stellati (con Raggi che raggiunge la cifra record di 770.564, mentre Ignazio Marino, per dare un’idea dell’impresa, raggiunse 664.490 voti, ma con un numero di votanti al secondo turno inferiore di ben 120mila voti), a Milano ha vinto Sala, con uno scarto a favore di 40mila voti tra primo e secondo turno, a Napoli de Magistris registra un risultato straordinario confermandosi sindaco coi due terzi dei voti, e a Bologna, Virginio Merola si conferma sindaco guadagnando 15mila voti rispetto al primo turno, ma perdendone 23mila rispetto alle elezioni precedenti.
L’analisi della sconfitta di Renzi, a metà, la seconda parte in direzione Pd. Le lasagne della nonna
Nel corso di una conferenza stampa e poi di un incontro con lo chef modenese Bottura, lunedì Renzi ha ammesso la sconfitta del Partito democratico, con queste parole: “L’analisi di ciò che il Pd ha fatto, non ha fatto, ha fatto bene o fatto male sarà oggetto di discussione. Il popolo di alcune città ha dato un messaggio che deve far riflettere il Pd. In direzione ci sarà una discussione molto vera, franca e sincera, mi piacerebbe essere molto franco con voi e lo sarò in direzione. Non è qualcuno soltanto che ha interpretato l’esigenza di cambiamento ma siccome in alcuni Comuni abbiamo perso dovremo come Pd cercare di dare il meglio di noi stessi per essere più forti la prossima volta. È normale che nell’esperienza di un governo ci siano delle amministrative che vanno bene e altre che vanno un po’ meno bene”. Adesso però, “i politici devono smettere di commentare e iniziare ad agire. Quando ci sono le elezioni il giorno dopo si smette con i dibattiti e si inizia a lavorare. C’è da fare la squadra, prendere visione dei problemi aperti, iniziare a affrontare un percorso che durerà anni”. Dunque, quella che una volta si chiamava analisi della sconfitta deve attendere la direzione del 24 giugno, sostiene Renzi. L’unica verità che ammette, e non può fare altro, è che si è trattato di un voto non di protesta ma di cambiamento. E poi, nonostante il clima pesante nel partito e non solo, fa il Renzi dinanzi ai piatti dello chef, con analogie bizzarre: “Io continuo ad emozionarmi per la lasagna della nonna. Ma sono anche consapevole della necessità di saper coniugare i valori della nostra comunità politica aprendoci al nuovo, senza cadere nel nuovismo”.
La sinistra Pd sempre più amletica: dimissioni o non dimissioni? segretario o non segretario? Stucchevole
Quanto alla sinistra democratica, la sintesi è il “cambio di rotta”. Nel partito, nelle alleanze, nelle politiche di governo, nelle questioni istituzionali dalle riforme all’Italicum. L’elenco è noto e la minoranza presenta il conto a Matteo Renzi per una sconfitta “severa”, per dirla con Gianni Cuperlo. La novità è che il bacino dei critici, stavolta, non è chiuso nella ‘solita’ sinistra dem. C’è una dura intervista all’Huffington di Matteo Richetti. C’è Marina Sereni, area Franceschini (e molto vicina a Piero Fassino, fin dai tempi della segreteria Ds), che chiede di “prendere sul serio” il voto. C’è Walter Verini che evidenzia la distanza tra il Pd e le periferie “che non ci hanno votato”. Una fibrillazione diffusa, insomma, dopo una tornata elettorale deludente e che mette sul chi vive anche per le sfide future, a partire dal referendum. Tuttavia, da parte della minoranza, non si arriva all’affondo finale. La richiesta di dimissioni da segretario a Renzi lanciata da Davide Zoggia resta isolata. Certo, c’è il tema del doppio incarico ma, spiega Nico Stumpo, “quella è una discussione che si affronterà al congresso. Dopo il referendum di ottobre”. Né nella riunione convocata giovedì 23 giugno da Roberto Speranza verrà definita la posizione della minoranza sul referendum, decisione politicamente bizzarra, dal momento che è quello il campo di battaglia politico su cui ci si confronterà nei prossimi mesi. “C’è tempo. Ora stiamo sulle amministrative”, dice ancora Stumpo. Insomma, avanti con la strategia del passo alla volta utilizzata sin qui dalla sinistra dem fino all’appuntamento con il congresso che, “stiamo a quanto detto da Renzi in Direzione -dice ancora Stumpo – partirà dal giorno dopo il referendum”. Dunque un “cambio di rotta”. Il messaggio è affidato innanzitutto al candidato in pectore della minoranza al congresso, Roberto Speranza. “Oggi il Pd rischia di essere il partito del capo qui a Roma e poi una sommatoria di comitati elettorali sul territorio, un Pd megafono di palazzo Chigi”. Tuttavia Speranza non chiede un passo indietro di Renzi dalla guida del partito.
Il caso del Pd romano sconfitto, e la lezione di John Keats: la vittoria ha molti padri, la sconfitta è orfana
“Dopo un risultato come quello di Roma credo che solo una cosa non si possa fare: discutere per finta. Abbiamo il dovere della sincerita’”. Lo scrive Matteo Orfini, presidente del Pd e commissario del partito a Roma. “Ciò significa riconoscere gli errori, ma anche ricostruire i fatti con precisione per evitare di sbagliare ancora. E vale per tutti, prima di tutto per me”, aggiunge Orfini. “Prima delle elezioni ho ricordato a tutti che entro ottobre avremmo dovuto convocare il congresso, perché questo prevedono le nostre regole. E questo accadrà. Quella sarà la sede in cui faremo le scelte, ma è ovvio che abbiamo bisogno di discutere, da subito”, scrive su Facebook il presidente del Partito Democratico, Matteo Orfini, commissario del partito romano che stenta a fare autocritica. Anzi, rilancia: “In questa campagna elettorale si è cominciato a vedere un partito nuovo, aperto a esperienze civiche, che ha saputo rimettersi in gioco e in discussione”. Come diceva il grande poeta John Keats, la vittoria ha moltissimi padri, la sconfitta è orfana.
Il commento dell’Osservatore romano, obiettivo e indicativo dell’atteggiamento della Santa sede e di molti cattolici
Come spesso accade di questi tempi, è l’organo della Santa sede, l’Osservatore Romano, a comporre l’analisi più obiettiva di quanto è accaduto domenica. “La sconfitta del Pd appare netta”; il partito del premier Renzi infatti ha perso anche Torino e non solo Roma, come era da mettere in conto. E il Movimento 5 Stelle si è dimostrato abile nel raccogliere i voti dei cittadini delusi. Ma, suggerisce il quotidiano della Santa Sede, all’indomani dei ballottaggi “il primo dato da analizzare, nel panorama generale del voto, è il crollo dell’affluenza: una diserzione dalla quale non si può prescindere, nel momento in cui si volessero trarre dal voto indicazioni politiche a livello nazionale”. “Metà degli italiani – scrive l’Osservatore Romano – ha preferito non scegliere. Il comportamento in futuro di gran parte di questi elettori potrebbe sovvertire qualsiasi analisi fondata sugli esiti di queste amministrative”. “E’ un elemento – rileva l’articolo – che le segreterie dei partiti tengono bene a mente, anche nella prospettiva delle prossime scadenze politiche, prima fra tutte quella del referendum costituzionale”. “Se il partito del presidente del Consiglio Matteo Renzi è riuscito a tenere Milano, considerato come ultima trincea per evitare di parlare di disfatta, d’altra parte il clamoroso risultato di Torino – rileva inoltre l’articolo – consente alla minoranza dei democratici di chiedere in via più o meno ufficiale un confronto che si preannuncia acceso. Renzi tuttavia sembra aver confermato di voler attendere l’esito del referendum prima di affrontare in congresso le questioni interne al partito”. Secondo il quotidiano diretto dal professor Giovanni Maria Vian, “nel centrodestra, nel frattempo, non si ride. Milano ha confermato le difficoltà di una coalizione priva di quel collante che è stato a lungo Berlusconi, mentre se gli elettori di centrodestra hanno preferito appoggiare i 5 Stelle ai ballottaggi, lo stesso meccanismo sembra non aver funzionato all’inverso, ponendo così seri interrogativi sulla capacità delle forze di destra di attrarre anche l’area moderata. Capacità che ha invece dimostrato, in questo frangente, il Movimento 5 Stelle, abile nel calamitare al contempo tutto il malcontento locale, come a Roma, e tutto il malcontento nei confronti di Roma, come a Torino”.