Trent’anni fa, il 14 giugno 1986, se ne andava uno scrittore che è stato definito, a ragione, “l’Omero del Sudamerica”. Un pensiero a Jorge Luis Borges, alla sua grandezza, ai suoi misteri e alla sua scrittura potente e rivoluzionaria. Un pensiero alla sua vita, lunga e complessa nonostante la cecità ereditaria che lo ha costretto a trascorrere gli ultimi trent’anni al buio, senza per questo impedirgli di cogliere i mutamenti del mondo e di stigmatizzarne i difetti, le miserie, le ambiguità, la pochezza e il populismo di certi governanti e la ferocia e la barbarie fascista di altri.
Liberale, tendenzialmente conservatore, non particolarmente impegnato a livello politico, nemico giurato del peronismo e autore di una tardiva presa di coscienza in merito ai colpi di Stato di Pinochet in Cile e di Videla in Argentina, non è una bestemmia asserire che Borges sia stato tendenzialmente un anarchico, individualista fino ai limiti dell’eccesso ma capace, tuttavia, di comprendere la complessità del suo popolo e di amare il concetto di comunità, purché inteso nella sua accezione cosmopolita.
Perché Borges, oltre ad essere un argentino a tutti gli effetti, molto legato alla sua terra natale e al fascino della Buenos Aires di inizio Novecento, ha sempre avuto una visione filo-occidentale, uno sguardo attento all’Europa e alle sue evoluzioni, un particolare amore per la città di Ginevra, dove diceva di sentirsi felice e dove se ne è andato all’età di ottantasei anni, un pensiero globale e un’apertura mentale propria solo dei giganti della letteratura e del pensiero.
Un sognatore concreto, di testa e d’anima, anticonformista al midollo, contrario ad ogni costrizione e ad ogni obbligo legato al bon ton, al punto di non ricevere il meritatissimo premio Nobel proprio per la sua incapacità di dimostrarsi politicamente corretto quando gli avrebbe fatto comodo.
Un uomo dotato di una filosofia profonda e di una narrazione interiore che lo induceva a concepire la vita stessa come un romanzo, un film, un qualcosa ai limiti dell’epica, inseguendone l’immensità e la grazia, la suggestione e la bellezza, senza precludersi alcuna battaglia, alcuna sfida, alcun viaggio, alcuna passione, alcun incontro, alcun confronto, compresi i più aspri e sorprendenti.
Un esploratore, questo è stato fondamentalmente Borges, moderno Colombo alla scoperta di un secolo intricato e ricchissimo di svolte: un secolo che ha attraversato quasi per intero, con passione ed entusiasmo, risultandone senz’altro un protagonista e ben cosciente di esserlo.
Un visionario, al quale dobbiamo composizioni meravigliose come “Le strade”: “Le strade di Buenos Aires / erano già le mie viscere. / Non le avide strade / scomode di folla e di trambusto, / ma le strade svogliate del quartiere, / quasi invisibili per l’abitudine, / intenerite da penombra e da tramonto / e quelle più fuori / prive di alberi pietosi / dove austere casette si avventurano appena, / oppresse da immortali distanze, / a perdersi nella profonda visione / di cielo e di pianura. / Sono per il solitario una promessa / perché migliaia di anime singolari le popolano, / uniche davanti a Dio e nel tempo / e senza dubbio preziose. / verso l’Ovest, il Nord e il Sud / si sono dispiegate – e soni anche la patria – le strade, / spero che nei versi che traccio / ci siano quelle bandiere”.
Un incedere labirintico, senza punti di riferimento, senza certezze, senza più illusioni, se non quella di un’incredibile onestà intellettuale, alla ricerca della giustizia e di un domani. Da qui, la meraviglia de “I giusti”, forse la sua poesia più conosciuta, senz’altro la più bella: “Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire. / Chi è contento che sulla terra esista la musica. / Chi scopre con piacere un’etimologia. /
Due impiegati che in un caffè del sud giocano in silenzio agli scacchi. / Il ceramista che premedita un colore e una forma. / Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace. / Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto. / Chi accarezza un animale addormentato. / Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto. / Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson. / Chi preferisce che abbiano ragione gli altri. / Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo”.
Il suo desiderio era quello di essere dimenticato: impossibile per un mito destinato all’immortalità.