L’ha detto o non l’ha detto? E poi cosa avrebbe detto davvero questo Massimo D’Alema che si ostina a non capire di essere stato rottamato e infastidisce Matteo Renzi come Cucchi e Magnani, “pidocchi nella criniera di un nobile cavallo da corsa”, infastidivano Palmiro Togliatti? La Stampa: “D’Alema, il Pd cerca un capro espiatorio”. Repubblica: “D’Alema Raggi, scontro nel Pd. Orfini: vai ai gazebo con Giachetti”. A parte il ridicolo di sentire Orfini ordinare qualcosa a D’Alema dopo aver passato una vita ad afferrare, da lui, un qualche raggio di luce riflessa, tutto questo parlare di D’Alema chiama in causa il nostro giornalismo, quello di Repubblica in particolare. Cosa ha scritto, infatti, ieri Repubblica? In prima pagina: “D’Alema: voterei pure Lucifero pur di mandare Renzi a casa. All’interno e fra virgolette: “Pur di cacciare Renzi sono pronto a votare anche la Raggi”. Bene, direte voi, l’ex premier ed ex segretario preferisce per Roma un sindaco a 5 Stelle e si propone di disarcionare l’attuale segretario e premier del Pd. Purtroppo l’interessato smentisce e accusa Palazzo Chigi, di volerlo usare come capro espiatorio, cioè di volergli addossare la colpa di un probabile insuccesso di Giachetti a Roma. Questo scrive la Stampa, ma Repubblica conferma: “ecco i tre incontri anti-riforma e le telefonate per la giunta Raggi”. Nelle telefonate D’Alema avrebbe consigliato al critico d’arte Montanari di accettare l’offerta dell’assessorato alla cultura fattagli da Raggi. Negli incontri (non pubblici) D’Alema avrebbe detto di essere propenso a impegnarsi per il No al referendum costituzionale, di ritenere che se vincesse il Sì verrebbe asfaltata la minoranza interna e, di conseguenza, la possibilità di riproporre un centro-sinistra. D’Alema avrebbe anche detto che “il bipolarismo è finito”, che “Renzi confonde premierato e sistema presidenziale” come si evince dal “dilettantismo con cui ha immaginato la regola dei due mandati”. Infine, sulle scale, salutando gli ospiti e scambiando con loro battute semiserie, avrebbe confessato: “se vince il Sì, me ne vado dal Pd”.
Dov’è la notizia? Dov’è Lucifero? Dov’è il vota Raggi, vota Raggi? Ammettiamo che De Marchis (autore del servizio), indignato dalla supponenza spregiudicata di un signore che credo abbia ancora la tessera del Pd, volesse andare oltre per informare meglio i lettori, beh, allora avrebbe chiesto a D’Alema: è vero? Ne sarebbe seguito uno scoop: un fondatore del Pd chiede un voto contro il Pd. Oppure una smentita. Anche in questo caso De Marchis avrebbe potuto spiegare ai lettori che le sue fonti testimoniavano una volontà del D’Alema di cambiare collocazione politica, ma che poi l’interessato, davanti a domanda esplicita, aveva mostrato di non saper scegliere. Invece no. Repubblica mette tra virgolette frasi non dette, o estrapolate dal contesto, magari credibili, ma tecnicamente false. E’ lecito a questo punto il dubbio che le fonti, anzi la fonte, di Repubblica sia Palazzo Chigi? Sì, è lecito perché è sotto gli occhi di tutti noi come da anni Renzi trasformi qualunque questione di merito in uno scontro con mestatori nostalgici e irresoluti che provano a frenare lo slancio di chi, come lui, “vuol bene all’Italia”. Il retroscena, la velina di Palazzo Chigi diventano verità. Le smentite non fanno che confermare. Il guaio è che De Marchis – come Maria Teresa Meli del Corriere – non credo abbiamo coscienza alcuna di essersi messi fuori da ogni buona regola del giornalismo. Da tempo chi fa le interviste in Italia, non mostra alcun interesse per quel che pensa l’intervistato. No, stanno lì (al telefono e con il registratore accesso), chiedono, chiedono, spaziano, divagano, fino a quando scappa una frase che possa servire, fuori dal contesto e contro la volontà dell’intervistato, a far il titolo che il giornale voleva già fare.
È giornalismo questo? A voi l’ardua sentenza. Noto che Repubblica, oggi apre così: “Statali, guerra ai furbetti. Licenziati in un mese”. Cioè non parla dei ballottaggi? Ma sì, che ne parla. Quel titolo suggerisce, infatti, che non ci sia alcun bisogno dei grillini visto che il Grillo buono siede già a Palazzo Chigi e da lì pensa a tagliare le poltrone dei senatori e a prendere a pedate gli statali infedeli. Tuttavia va detto che il giornale di Calabresi non fa proprie tutte (non proprio tutte) le campagne del Renzi. Per esempio l’ultima e-news invitava a celebrare per oggi il no Imu-day. Repubblica la ignora perché troppo è troppo, e fra i suoi lettori ci sono anche artigiani, commercianti, piccoli imprenditori, lavoratori dipendenti che vedono allargarsi la forbice tra tasse pagate e servizi che lo stato garantisce. Non definirei, dunque, Repubblica, come pare abbia fatto D’Alema, un House-Organ di Renzi. Una certa libertà e un certo pluralismo della stampa resistono ancora in Italia. Appunto resistono. Perché i conti economici di giornali e telegiornali sono in sofferenza. E il Premier ha già realizzato una riforma vera, trasformando Palazzo Chigi nella autorità regolatrice di ogni oligopolio. Egli, il premier, grazie alla sua non-riforma della Rai, si è invitato al tavolo della spartizione del mercato televisivo tra Mediaset e Sky. Grazie alla sua amicizia con Marchionne, ha messo in brache di tela il Corriere – uscita degli Elkan – e tiene sotto tutela gli umori di Confindustria e del suo giornale, il Sole24Ore, diviso tra l’ottimismo economico del premier e la meno esaltante realtà che emerge dall’analisi di cifre e conti.