A ottobre gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi su un referendum costituzionale di cui molti ignorano i contenuti. Come previsto – e voluto dallo stesso Renzi – l’appuntamento si trasformerà in un plebiscito pro o contro il governo.
di Adriano Gizzi
In una domenica di ottobre, molto probabilmente il 16, gli elettori italiani verranno separati nettamente in due, neanche fossero le acque del Mar Rosso: da una parte quelli che ritengono Matteo Renzi il più grande statista di tutti i tempi (e la sua riforma costituzionale, approvata il 12 aprile scorso, la soluzione ai problemi del paese) e dall’altra parte coloro che vedono nel premier un ducetto che vuole stravolgere e ridurre a carta straccia «la Costituzione più bella del mondo». Delle due l’una, tertium non datur. Ma probabilmente la maggior parte delle persone andranno alle urne per il referendum costituzionale senza aver letto neanche una riga del ddl Boschi e decideranno cosa votare esclusivamente sulla base delle simpatie o antipatie politiche. Non è un caso se la quasi totalità del Partito democratico è mobilitata a favore, con migliaia di comitati per il Sì, e tutte le forze di opposizione sono schierate per il No. Il presidente del Consiglio ha esaltato «l’Italia che dice Sì» in contrapposizione a quella che dice sempre di no, che mugugna ma non vuole cambiare… insomma, i soliti gufi. Non siamo poi lontanissimi dagli stilemi comunicativi berlusconiani, dell’Italia che ama in contrapposizione a quella che odia e dell’amore che vince sempre sull’odio e sull’invidia.
A “cominciare” (come si direbbe a scuola, in una baruffa tra alunni) è stato Renzi, annunciando che qualora dovesse perdere il referendum considererebbe conclusa la sua esperienza politica. Lo disse quando i sondaggi davano in forte vantaggio i favorevoli alla sua riforma, mentre adesso pare che l’esito sia molto incerto. Gli oppositori del presidente del Consiglio non hanno perso tempo e, approfittando del suo generoso autogol, hanno risposto alla sfida accettando di trasformare il referendum in un plebiscito pro o contro di lui. Da posizioni contrapposte, filogovernativi e antigovernativi concordano nel definire la posta in gioco: non tanto il ddl Boschi, quanto la sopravvivenza o meno del governo.
Lo “spacchettamento” per sfuggire all’Armageddon?
Un modo per evitare i toni apocalittici e uscire da questa battaglia finale tra il bene e il male ci sarebbe: votare il referendum per parti separate, con la possibilità cioè di dire Sì o No alle singole questioni, senza essere obbligati ad approvare o respingere l’intero pacchetto. Secondo alcuni costituzionalisti, tra cui Michele Ainis e Fulco Lanchester, il procedimento di revisione costituzionale era stato pensato per interventi mirati, quindi un quesito relativo a una quarantina di articoli della Costituzione violerebbe la libertà di voto, così come stabilito dalla Corte costituzionale nel 1978, quando si espresse contro i quesiti referendari disomogenei che non consentono all’elettore di discernere tra le diverse parti della legge su cui è chiamato a pronunciarsi. Va detto che negli altri referendum costituzionali (e quello del 2006 riguardava addirittura una cinquantina di articoli) si votò su un unico quesito. L’ipotesi del cosiddetto “spacchettamento” dei quesiti viene bocciata per esempio dal costituzionalista Lorenzo Cuocolo, che su l’Unità del 5 maggio scorso osservava: «Il criterio di omogeneità è previsto solo per il referendum abrogativo: questo invece è un referendum confermativo delle scelte del Parlamento, che l’elettore può solo confermare o respingere in blocco».
Le opposizioni hanno depositato in Cassazione le firme dei parlamentari per richiedere il referendum costituzionale. Riccardo Magi, segretario di Radicali italiani, ha annunciato la presentazione di referendum parziali solo su due questioni: la composizione del Senato (articolo 57) e la materia referendaria (articolo 75). Altre forze politiche potranno presentare diversi quesiti parziali o puntare sul referendum per parti separate, c’è tempo fino a metà luglio. Sarà poi la Cassazione a valutare quali quesiti ammettere.
I punti salienti del ddl Boschi
La modifica più importante introdotta dalla riforma costituzionale riguarda la fine del bicameralismo paritario: a votare la fiducia al governo sarà solo la Camera dei deputati, mentre il Senato avrà poteri limitati e non verrà più eletto direttamente. Cambia anche la composizione: si passa da 315 a 100 membri. Di questi, 74 saranno consiglieri regionali, 21 sindaci e cinque membri nominati dal capo dello Stato, non più a vita ma solo per sette anni. Membri di diritto a vita resteranno solo gli ex presidenti della Repubblica.
La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere solo in alcuni ambiti, tra cui: leggi di revisione costituzionale, leggi di ratifica dei trattati Ue, materia elettorale e referendaria, funzioni delle autonomie locali. Secondo i comitati per il No, non si supera veramente il bicameralismo ma lo si rende più confuso, complicando l’iter di formazione delle leggi e creando conflitti di competenza tra le due camere. Così come aumenteranno – sempre secondo il “fronte del No” – i conflitti tra Stato e Regioni, anche se i sostenitori delle modifiche costituzionali replicano che proprio l’abolizione della legislazione concorrente tra Stato e Regioni e la revisione delle materie di competenza esclusiva dovrebbero semplificare le cose. Ora poi lo Stato si “riappropria” di molte materie che aveva ceduto alle Regioni con la riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centro-sinistra nel 2001.
Le critiche del comitato per il No si estendono anche alle modifiche sulle proposte di legge di iniziativa popolare e sui referendum abrogativi. Per le prime, il ddl Boschi triplica il numero di firme necessarie (da 50 a 150mila), mentre per quanto riguarda i referendum porta da 500 a 800mila le firme, ma abbassa notevolmente il quorum, che verrà calcolato sulla metà degli elettori che avevano votato alle ultime politiche. Di fatto, significa passare dal 50% fisso a una percentuale variabile (al momento intorno al 37%). Il nuovo articolo 72 pone un limite alla decretazione d’urgenza, prevedendo la procedura normale (cioè in aula, non in commissione) per i ddl di conversione in legge dei decreti. Inoltre, il nuovo articolo 77 prevede che «nel corso dell’esame di disegni di legge di conversione dei decreti legge non possono essere approvate disposizioni estranee all’oggetto o alle finalità del decreto». In questo modo, si dovrebbe evitare il malcostume italiano di far passare in modo quasi “clandestino” delle norme che non si ha il coraggio di far conoscere all’opinione pubblica. Cambia anche il quorum per l’elezione del presidente della Repubblica: dal settimo scrutinio saranno necessari i tre quinti dei votanti, mentre fino ad ora dal quarto scrutinio bastava la maggioranza assoluta, ma dei componenti.
Per Stefano Rodotà, «con il combinato disposto del ddl costituzionale e dell’Italicum si va verso la democrazia plebiscitaria». Ma ricordiamo che il 4 ottobre la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi proprio sulla nuova legge elettorale. Secondo i critici, il rafforzamento dei poteri del governo rispetto al Parlamento verrebbe aggravato dal fatto che l’Italicum garantisce il 54% dei seggi a una lista che magari al primo turno aveva preso solo il 25% o anche meno, dando troppo potere a una minoranza. Una cinquantina di costituzionalisti – tra i quali gli ex presidenti della Corte Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida e Ugo De Siervo – hanno firmato un appello nel quale criticano la riforma, si dicono preoccupati del fatto che «la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un governo» e chiedono che sia data la possibilità di votare separatamente sui singoli temi. Difende invece la riforma il “manifesto per il sì” firmato da duecento giuristi.
(pubblicato su Confronti di giugno 2016)
Per approfondire le ragioni del Sì e del No, rimandiamo a due interviste: una a Carlo Fusaro (professore ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università di Firenze) e l’altra a Gianfranco Pasquino (professore emerito di Scienza politica dell’Università di Bologna)