Ogni minuto 24 persone sono costrette ad abbandonare la propria casa: nel mondo oggi esistono 65,3 milioni di rifugiati e sfollati. Nella Giornata mondiale del rifugiato a ricordare che 1 essere umano su 113 condivide questa sorte è l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati. Ma se fino ad alcuni anni fa le migrazioni trovavano spazio sui media solo saltuariamente e questa Giornata era l’occasione per puntare i riflettori su un fenomeno tanto importante quanto poco raccontato, oggi, almeno per il mondo del giornalismo, il significato di questa ricorrenza cambia.
Di migranti e rifugiati, infatti, ormai si parla, e tanto. Nel 2015, rilevava il rapporto Carta di Roma lo scorso dicembre, vi è stato un incremento delle notizie in prima pagina che ha oscillato tra il 70 e il 180%, mentre sui tg prime time è stato registrato un picco di servizi sul tema che non trova precedenti negli ultimi 11 anni.
Quantità, tuttavia, non è sinonimo di qualità. A un dibattito politico europeo che riduce le persone a delle fredde quote – e con l’accordo Ue-Turchia persino a merce di scambio – corrisponde una rappresentazione altrettanto deumanizzante.
I rifugiati sono troppo spesso ridotti a dei numeri. Lo sono quando si fa il conto degli arrivi avvenuti negli ultimi giorni, settimane, mesi; quando si calcolano i letti già occupati sulla mappa del sistema d’accoglienza, varando la classifica di chi ospita più e chi ospita meno; lo sono ogni volta che si torna a puntare il dito verso i costi sostenuti per ognuno di loro. Tra sensazionalismo e mancanza di contestualizzazione, i dati perdono la loro funzione chiarificante: ogni numero è trasformato in un problema.
Così cifre e parole, grazie al potere moltiplicatore del web, rimbalzano da un sito all’altro, da un social all’altro, scatenando le reazioni di chi in esse vede solo un allarme. E molti media – con importanti e positive eccezioni – stanno comodamente a guardare: osservano il dibattito degenerare in uno scambio non costruttivo di violenza verbale.
I discorsi d’odio si propagano, trovano nuovi sostenitori, si amplificano e si trasformano, talvolta, in fatti. Oggi uno sforzo in più è chiesto ai media per contrastarli: quello di raccontate chi sono i rifugiati, di mostrare i conflitti che sono dimenticati, di analizzare in modo scientifico le sfide che il fenomeno delle migrazioni pone all’Europa, di offrire un’informazione libera da stereotipi, titoli urlati e propaganda.
Nella Giornata mondiale del rifugiato, forse, ci avvicineremo a questo obiettivo: ai numeri saranno affiancate storie di paura e speranza, il racconto troverà una dimensione più umana. Oggi, forse, i rifugiati saranno persone e non numeri. E da domani non dovranno tornare ad esserlo.
Questo è il messaggio che il 20 giugno, nel 2016, dovrebbe inviare alla stampa: mostrarle che raccontare tanto non significa raccontare bene, richiamarla alle sue responsabilità non solo per 24 ore, ma anche per i successivi 364 giorni.