Domani a Trapani si terrà l’udienza sul processo che vede imputato il nostro collega Rino Giacalone per una frase rivolta al boss della mafia Mariano Agate. Per questo vogliamo riproporre l’articolo scritto da Santo della Volpe (il 5 febbraio dello scorso anno) che giustamente si domandava su quali basi “si può processare un’opinione e una cronaca giornalistica”…
di Santo della Volpe*
Il processo al collega Rino Giacalone, cominciato a Trapani davanti al giudice Gianluigi Visco, si poteva agevolmente evitare. Perché la sostanza dell’accusa a Rino Giacalone era una frase scritta e rivolta a Mariano Agate, boss della mafia di Mazara del Vallo, morto mentre scontava l’ergastolo per i numerosi gravissimi reati, tra i quali la strage di Capaci e l’assassinio del giudice Giangiacomo Ciaccio Montaldo.
Rino Giacalone lo aveva definito un “gran pezzo di merda”, parlandone in un contesto di illustrazione giornalistica del ruolo di Mariano Agate nel panorama mafioso criminale in un articolo pubblicato il 3 aprile 2013 sul blog Malitalia e poi ripreso anche da altri siti. Parole forti, ma riprese dall’immagine di Peppino Impastato a proposito della mafia nel suo complesso. il procedimento penale ha preso il via da una querela presentata dalla signora Pace Rosa vedova Agate, difesa dall’avvocato Celestino Cardinale, per il reato di diffamazione. Ed il rinvio a giudizio prima, il processo aperto a Trapani parte da un assunto molto particolare, quello cioè di un presunto diritto al riconoscimento di una pur minima reputazione al soggetto defunto . Perchè, secondo la querela e la difesa della vedova di Mariano Agate, la morte cancella tutto. Anche gli ergastoli, gli assassini di Falcone , Francesca Morvillo e della loro scorta, l’omicidio di Ciaccio Montaldo, l’appartenenza ad un consesso criminale così gravemente inserito nella storia tragica di questo paese. Niente di tutto questo per la vedova del boss che ha addirittura accusato il vescovo di Mazara ,monsignor Mogavero che non aveva voluto fare i funerali del boss mafioso in Chiesa, dicendo che il marito aveva avuto l’estrema unzione. Come se quel sacramento avrebbe potuto cancellare tutto, il traffico di droga mortale come l’eroina che il boss raffinava negli anni 70, gli omicidi per i quali era stato condannato, il suo ruolo di mafioso che organizzava il contropotere mafioso contro lo Stato.
Rino Giacalone ha raccontato tutto questo, aggiungendo un’opinione sul boss Mariano Agate che fa riferimento ad una definizione della mafia entrata nel costume italiano , nei cartelli e striscioni di migliaia di ragazzi delle scuole italiane. “Era assente ogni volontà di colpire e diffamare una singola persona, come essere umano e come individuo”, ha detto Rino Giacalone;” l’espressione, la cui durezza nasce da un’indignazione morale che vuole interpretare e sollecitare quella collettiva, contiene piuttosto un giudizio storico e scaturisce da una riflessione sul fenomeno mafioso, una riflessione che si concretizza in un’immagine che, grazie a Peppino Impastato, non appartiene più al ricco campionario delle rabbiose e scomposte offese, ma fa ormai parte del patrimonio letterario dichiaratamente e coraggiosamente antimafioso e dell’immaginario collettivo della parte più consapevole della società siciliana e nazionale. Non c’è dunque, come si diceva, alcun intento offensivo nei confronti di una singola e specifica persona, ma una spassionata valutazione di quello che ha fatto, che ha rappresentato e che è stato in modo storicamente e giudiziariamente evidente: un “pezzo”, cioè una parte costitutiva e attiva, di una violenta e sanguinaria organizzazione criminale”. Parole chiare alle quali si può e si deve aggiungere solo una considerazione: il rischio di questo processo è che diventi una azione giudiziaria contro una opinione espressa da un giornalista, un processo ad una idea espressa con parole forti, ma dichiaratamente legate ad una ricostruzione del ruolo criminale di un boss come Mariano Agate.
Si vuol dunque processare una opinione? Una cronaca giornalistica? Dove può arrivare la diffamazione, nel caso in cui si parla di un capomafia criminale ed assassino? Si deve dimenticare, nei giudizi giornalistici, l’indignazione morale per tutto il suo passato delinquenziale solo perchè il boss è morto? Crediamo proprio di no. E crediamo soprattutto che ricordando l’articolo21 della Costituzione, non si possa processare l’opinione espressa da un giornalista, senza toccare la libertà di stampa.
Rino Giacalone si è affidato al tribunale, che ha già convocato i testi per la prossima udienza del 12 maggio: difeso dagli avvocati Miceli e da Enza Rando, avvocato di Libera, il collega Giacalone ha espresso la stessa nostra perplessità per il magistrato titolare delle indagini che ha riconosciuto l’esistenza di una offesa alla reputazione di un uomo che è morto da pluriergastolano. “Siamo dinanzi ad un paradosso” ha detto Rino Giacalone.” Ancora oggi abbiamo la prova che sul piano culturale la lotta alla mafia segna il passo. Altro che sconfitta se oggi non si può dir male di uno dei suoi esponenti più importanti, Mariano Agate, pari e forse di più di quel tal Matteo Messina Denaro. Siamo dinanzi a scenari e ragionamenti che vogliono negare il diritto a dire che anche l’uomo mafioso è un pezzo di quella montagna di merda mafiosa, vivo o morto che sia”.
*pubblicato sul sito di Articolo21 il 5 febbraio 2015