BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

E dopo il Brexit Indipendence Day, arriverà anche l’UK Disintegration Day?

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Dopo 43 anni vissuti malmostosamente, i sudditi di sua maestà britannica, la novantenne Elisabetta II, hanno deciso di abbandonare i sicuri lidi della “matrigna” Europa per rigettarsi nell’Oceano tempestoso dell’indeterminatezza e dell’incognito. Uno sguardo rivolto al passato, che sa di nostalgia (la maggior parte del 52% dei “SI” alla Brexit sono anziani, pensionati, classi povere e scarsamente acculturate, abitanti delle piccole città di provincia, agricoltori, allevatori): di un ritorno improbabile alle origini della “grandeur” britannica. Il 48% dei “NO” si è affermato nelle due regioni-stato dell’Irlanda del Nord col 58,8% e della irruenta Scozia col 62%. Non abbastanza per contrastare i “SI” vincitori nelle popolose regioni del Galles col 52,5% e dell’Inghilterra col 53,4%. Oggi la Gran Bretagna resta divisa in due: da una parte il Nord scozzese indipendentista, ricco per le royalties del pregiato petrolio Brent, e la mai sopita irredentista Nord Irlanda, che sogna anch’essa di separarsi da Londra per riunirsi, dopo secoli di un’amministrazione controllata anche militarmente, ai fratelli della libera Irlanda al Sud; dall’altra il Centro, la “pancia” ex-industriale ed ex-mineraria del Galles e dell’England (eccezion fatta per la cosmopolita Londra, dove infatti hanno vinto i “Remain”).

Ancora una volta, purtroppo, le “Cassandre” che davano per sicura la fuga di Londra da Bruxelles non sono state ascoltate! Anzi, dal 7 Maggio del 2015 (data in cui si tennero le elezioni politiche generali in Gran Bretagna), né le Cancellerie degli altri 27 paesi dell’UE, né la potente Commissione Europea e neppure i superburocrati comunitari si sono dati da fare per contrastare un evento tellurico che ha portato alla Brexit. Tutti gli sforzi si sono concentrati a “castigare” la Grecia e gli altri paesi mediterranei non in regola con i conti, invece di esperire misure per riformare le strutture e la “mission” dell’UE. Unica contromossa, l’accordo in extremis per lasciare ancor più le mani libere al premier David Cameron, proprio a ridosso della campagna elettorale. Trattamento di favore che la Gran Bretagna già usufruiva, comunque, dalla firma del Trattato di Maastricht del 1992 attraverso la clausola dell’Opting-out e del “Principio di sussidiarietà”. Dall’entrata in vigore del Trattato nel 1993, l’UE si è sempre trovata in una condizione di “sudditanza psicologica e culturale” nei confronti dei governi “iperliberisti” della Gran Bretagna (dai conservatori Thatcher a Major ai laburisti Blair e Brown) nella finanza, nell’economia, nelle legislazioni, nelle normative sociali e commerciali (dalle privatizzazioni ai sistemi di assistenza sanitaria e pensionistica, ai trattati sulle merci).

Eppure, i segnali della disfatta per i britannici europeisti c’erano già tutti in quel maggio di un anno fa. Scrivemmo allora su questo sito: “…Oggi Cameron ha dalla sua parte un elettorato fortemente euroscettico, separatista, che si rivolge agli Stati Uniti come all’unica vera sponda per cultura, sistema economico-finanziario e radici storiche, nonché per le scelte geopolitiche. Basta assommare ai suoi voti quelli dell’UKIP e di altri partitini reazionari per capire che già ora il Referendum per la separazione dell’UE potrebbe contare su oltre il 51%…” (“Cameron stravince e l’Europa perde. E ora fuori Londra dall’UE?”, sulle elezioni politiche del 7 maggio 2015). Facili profeti, purtroppo, come altri attenti osservatori, che non hanno chiuso gli occhi di fronte ai movimenti sociali e culturali che stanno scardinando i vecchi equilibri in Europa e che vanno affermandosi in tutto il continente, accrescendo i consensi di elezione in elezione, siano essi euroscettici e xenofobi di destra, come anche eurocritici ma inclusivi di sinistra.

Già nel 2015 gli istituti demoscopici sbagliarono sondaggi e proiezioni. Non riuscirono a prevedere né il successo straordinario degli Indipendentisti scozzesi né quello degli euroscettici dell’UKIP di Nigel Farage (passato in cinque anni dal 3,1% al 12,64%, con quasi 4 milioni di voti). Cameron vinse con una maggioranza sicura e senza alleanze, e si lanciò nel gorgo della Brexit. Allora come ora ha pagato la politica iperliberista dei conservatori, il loro “scetticismo british” verso l’Unione europea, la ripresa economica consolidata e l’aumento dell’occupazione; ma soprattutto il saper amministrare con furbizia i fondi europei, copiosi, determinare le scelte legislative di Bruxelles a favore della visione anglosassone del sistema economico (basta pensare alle privatizzazioni dei servizi pubblici, la politica di austerità e di sostegno alle banche).

Gran parte di questo risultato lo si deve anche al ruolo giocato dai media anglosassoni, che hanno fornito un forte appoggio attraverso la cosiddetta “stampa popolare” e dei media della “scuderia Murdoch”, che hanno soffiato sul fuoco della Brexit, creando anche un clima di odio nel quale ha perso la vita la deputata laburista Jo Cox. Un pressante “dagli all’untore” contro gli immigrati, come quelli che stazionano a Calais, in Francia, e che “starebbero per invadere il Regno Unito”. Un ridicolizzare il burocratico sistema di regole dell’Unione per poi indicare Bruxelles come l’origine di tutti i mali della crisi economica inglese. Anche in questa occasione, purtroppo, i media si sono comportati come megafoni delle posizioni più oltranziste, anziché documentare, analizzare, fare inchieste sul territorio, ospitare anche le opinioni degli “altri europei” o di alcuni dei milioni di “stranieri” che da decenni contribuiscono a fare la fortuna della Gran Bretagna: dalla finanza alla ricerca scientifica, al sistema sanitario, al rilancio di alcuni settori industriali.

“Ora potremmo cantare il nostro inno senza che Bruxelles ci dica che è sbagliato”, ha commentato il leader dell’Ukip, Farage. È “una vittoria della gente vera, una vittoria della gente ordinaria, una vittoria della gente per bene. Abbiamo lottato contro le multinazionali, le grandi banche, le bugie, i grandi partiti, la corruzione e l’inganno”, ha detto Farage, che ha definito il 23 giugno come l’Independence Day della Gran Bretagna.

Ma la debole vittoria di un infausto giovedì 23 giugno, come infausto è l’anno bisestile che stiamo attraversando tra stragi terroristiche e non solo, squilli di guerre in Medio Oriente e in Nord Africa (e che potrebbe finire a Novembre con l’elezione a presidente degli USA del demagogo repubblicano isolazionista e xenofobo Donald Trump), si potrebbe trasformare nella sconfitta dell’integrità secolare della Great Britain. Tutte le premesse ci sono perché dallo strombazzante Brexit Indipendence Day si passi all’UK Disintegration Day con la Scozia e il Nord Irlanda fieramente unite nella battaglia referendaria per separarsi da Londra e chiedere l’adesione all’UE. “Questo risultato apre una crisi costituzionale”, ha subito dichiarato il capogruppo a Westminster del Partito nazionalista scozzese, Angus Robertson. E gli ha fatto eco il primo ministro scozzese Nicola Sturgeon, secondo la quale, dopo questo voto referendario, la Scozia “vedrà il proprio avvenire solo dentro l’Unione Europea”.

E intanto è partita una petizione popolare per chiedere di tenere un altro Referendum Brexit entro i prossimi due anni, proprio mentre Bruxelles e Londra dovranno mettere a punto le procedure della separazione, poiché “la vittoria del Brexit ha ottenuto meno del 60% dei voti”. Sono già 1 milione le firme e il sito del Parlamento britannico che le raccoglie si è bloccato diverse volte per l’afflusso crescente. Un portavoce dei Comuni ha già fatto sapere che lo speciale Comitato che sovrintende a questo tipo di petizioni si riunirà il 28 Giugno per esaminarla. Intanto, per firmare c’è tempo fino al 25 Novembre prossimo.


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