Ieri negli Stati Uniti si è consumato l’ultimo affondo contro la libertà di stampa e la dignità del giornalismo: il candidato repubblicano alla Casa Bianca in pectore, Donald Trump, ha fatto revocare l’accredito ai reporter del Washington Post per seguire la sua campagna. La motivazione ufficiale chiama in causa l’articolo apparso ieri sul più autorevole quotidiano americano (dopo il NYT), che attribuiva a Trump l’accostamento del presidente Obama alla strage di Orlando, quando aveva dichiarato a Fox News che “o non è duro abbastanza, o non è intelligente o ha qualcos’altro in mente”.
La risposta di Trump, diffusa sulla sua pagina Facebook, è arrivata subito con la revoca degli accrediti ai giornalisti del Post, accusato di essere “falso e disonesto” e di pubblicare articoli “incredibilmente inaccurati”. Inoltre, da tempo il magnate accusa il WP di farsi strumentalizzare dall’attuale proprietario Jeff Bezos, inventore e principale azionista di Amazon, che attaccando la campagna di Trump cercherebbe di difendere il suo gruppo. Ma dietro l’angolo c’è anche il libro-inchiesta su vita e affari del candidato repubblicano che i cronisti del Post pubblicheranno entro questa estate, in tempo quindi per il rush finale della corsa alla Casa Bianca.
Non è però la prima volta che Trump attacca i giornalisti non appiattiti sulle sue posizioni, dimostrando un’insofferenza innata per domande scomode e verifiche su omissioni e bugie. Di giorno in giorno, infatti, fin dalla sua candidatura alle primarie repubblicane un anno fa, presso il suo staff si allunga la “lista nera” dei media indesiderati: Gawker, BuzzFeed (sistematicamente sgradito), Foreign Policy, Politico, Fusion, Univision, Mother Jones, il New Hampshire Union Leader, il Des Moines Register, Daily Beast e Huffington Post. L’allontanamento non segue una regola precisa, a volte è limitato a un evento, altre volte è stato prolungato senza spiegazione. In alcuni casi i cronisti hanno seguito i suoi comizi come semplici spettatori, ma anche così non sono graditi. E’ successo ad esempio a Ben Schreckinger del sito Politico, allontanato la scorsa settimana da membri della sicurezza durante un evento pubblico, come già accaduto a marzo in Florida.
Ma la ripulsa di Trump verso la libera informazione durante quest’anno di campagna elettorale è andata più volte oltre la decenza. Come quando ha fatto il verso a un noto reporter disabile del New York Times, Serge Kowaleski, che si era permesso di discutere alcune sue affermazioni sui musulmani americani. O quando, commentando il primo dibattito in tv tra candidati repubblicani, ha attribuito l’insistenza delle domande poste dalla anchor woman di Fox News Megyn Kelly alle sue mestruazioni. O ancora quando ha fatto allontanare da una conferenza stampa il corrispondente di Univision Jorge Ramos per le sue domande sul suo programma in tema di immigrazione.
Addirittura a febbraio Donald Trump ha promesso di cambiare la legge sulla diffamazione per rendere più semplice accusare i giornalisti, anche a costo di ridurre le protezioni costituzionali contenute nel Primo Emendamento in difesa della libertà di parola e di stampa.
Non serve esprimere un giudizio sulla linea del front runner del GOP (il partito repubblicano) in merito al diritto-dovere dei giornali e dei giornalisti di verificare, scrivere e commentare in piena libertà fatti e opinioni, soprattutto dei candidati a guidare il paese che ancora è il più potente del mondo. Basti citare lo stesso direttore del Washington Post Marty Baron, che ha definito il ritiro degli accrediti da parte di Trump “ripudio del ruolo della stampa libera e indipendente“, annunciando che il quotidiano della capitale continuerà a seguirne la campagna ”onorevolmente, onestamente, con accuratezza, energia e risolutezza. Siamo orgogliosi dei nostri servizi e proseguiremo sulla stessa linea”, ha concluso Baron. Mentre l’ultimo intervento dell’Editorial Board (la voce ufficiale del giornale) ha un titolo che parla da solo: “L’assalto di Donad Trump ai nostri valori”.