Tre storie amare, drammatiche, strazianti; tre storie che, forse, ai ragazzi di oggi dicono poco ma che segnarono in maniera decisiva quella fase storica che è oggi ricordata come la stagione degli Anni di Piombo. Anni Settanta-Ottanta, decenni devastanti: una politica debole, partiti in crisi dopo il trentennio della passione, della partecipazione e dell’impegno, le denunce di Berlinguer contro la progressiva degenerazione di un sistema che sarebbe sfociato, nel biennio “92-’93, nel mega-scandalo di Tangentopoli, il delitto Moro, la morte del compromesso storico, la fine della solidarietà nazionale, le stragi (rosse, nere e mafiose). Una violenza, una devastazione e un bagno di sangue senza precedenti: era dagli anni Quaranta che nel nostro Paese non si contavano tanti morti nelle strade e per le piazze, solo che stavolta a cadere sotto i colpi delle pistole e delle mitragliette non erano i partigiani vittime delle rappresaglie nazi-fasciste ma giornalisti, esponenti politici, sindacalisti e decine di cittadini comuni, in quella che è stata ribattezzata “Strategia della tensione”, ossia un tentativo, ordito da forze eversive, servizi segreti deviati e pezzi importanti dello Stato, di destabilizzare il quadro politico e agevolare una svolta autoritaria tramite l’avvento del cosiddetto “governo forte”.
Nel 1981 sarebbero emersi, nella residenza del “Venerabile” Licio Gelli a Castiglion Fibocchi (Arezzo), gli elenchi della loggia massonica P2, provocando un terremoto destinato a sconvolgere per sempre il quadro istituzionale, dando purtroppo avvio al progressivo distacco e al feroce disamore dei cittadini nei confronti della cosa pubblica, in un decennio segnato dall’ascesa della predicazione egoista e individualista propria del liberismo sfrenato del duo Reagan-Thatcher.
Una componente essenziale in questa mattanza fu l’estremismo diffuso da una parte e dall’altra, in un crescendo di radicalismo e bestialità che vide una delle sue vette in tre episodi di cui quest’anno ricorrono i rispettivi anniversari: tre omicidi che videro protagonisti i giudici Francesco Coco e Vittorio Occorsio e Roberto Peci, fratello di Patrizio, il primo pentito nella storia delle Brigate Rosse.
Due omicidi brigatisti, Coco e Peci, e uno a carico di Ordine Nuovo, quello del giudice Occorsio, reo di aver indagato con passione e perizia sullo stragismo fascista da piazza Fontana in poi.
Coco, Occorsio e Peci: tre crimini senza alcuna giustificazione ideologica, tre atti di pura delinquenza difficili da spiegare oggi e quasi impossibili da far capire a chi non ha vissuto o non ha studiato adeguatamente il clima di quegli anni, permeato da una concezione malata dell’impegno politico volta alla distruzione, all’attacco al cuore dello Stato, alla destabilizzazione e all’abbattimento di quei soggetti considerati nemici della propria fazione.
Coco, reo, agli occhi del commando omicida che lo uccise l’8 giugno 1976 a Genova, insieme agli uomini della scorta, di non aver voluto accettare alcuna trattativa in occasione del rapimento del collega Mario Sossi, avvenuto due anni prima sempre ad opera delle BR.
Occorsio, assassinato a Roma il 10 luglio 1976 da Pierluigi Concutelli, con la complicità di Gianfranco Ferro, i quali rivendicarono il gesto con la seguente delirante motivazione: “La giustizia borghese si ferma all’ergastolo, la giustizia rivoluzionaria va oltre. Il tribunale speciale del MPON ha giudicato Vittorio Occorsio e lo ha ritenuto colpevole di avere, per opportunismo carrieristico, servito la dittatura democratica perseguitando i militanti di Ordine Nuovo e le idee di cui essi sono portatori. Vittorio Occorsio ha, infatti, istruito due processi contro il MPON. Al termine del primo, grazie alla complicità dei giudici marxisti Battaglini e Coiro e del barone de Taviani, il Movimento Politico è stato sciolto e decine di anni di carcere sono state inflitte ai suoi dirigenti. Nel corso della seconda istruttoria numerosi militanti del MPON sono stati inquisiti e incarcerati e condotti in catene dinanzi ai tribunali del sistema borghese. L’atteggiamento inquisitorio tenuto dal servo del sistema Occorsio non è meritevole di alcuna attenuante: l’accanimento da lui usato nel colpire gli ordinovisti lo ha degradato al livello di un boia. Ma anche i boia muoiono! La sentenza emessa dal tribunale del MPON è di morte e sarà eseguita da uno speciale nucleo operativo. Avanti per l’Ordine Nuovo!”.
Roberto Peci, rapito a San Benedetto del Tronto verso le sette di sera del 10 giugno 1981, mentre il Paese tratteneva il fiato per le sorti del povero Alfredino Rampi, tenuto prigioniero per cinquantacinque giorni (gli stessi di Aldo Moro) e assassinato in un casolare abbandonato nella campagna romana il 3 agosto dell’81, con undici colpi di arma da fuoco (proprio come Moro), al fine di punire il fratello Patrizio, colpevole di aver iniziato a collaborare con lo Stato per contribuire a smantellare e il terrorismo brigatista.
Ricordi sfuocati, ormai lontani, figli di una stagione che per fortuna appartiene ai libri di storia ma comunque indelebili nella memoria di chi c’era e atroci anche per chi non ha vissuto quei giorni ma li ha approfonditi, ne ha compreso le caratteristiche, ne ha esaminato i limiti e le miserie, la disperazione e lo sconforto. Ideologie malate, degenerate, squallide e il colore rosso del sangue che annulla tutte le bandiere, tutti i sogni, tutti gli ideali, in un turbine di progressiva degenerazione che ha disseminato di lapidi l’Italia, lasciandoci tutti più soli, più fragili e con una politica senza qualità né passione, priva di quella genuinità rimasta distesa sull’asfalto di troppe mattanze ordinate ed eseguite proprio per tenere i cittadini chiusi in casa, prigionieri delle proprie paure e del proprio disincanto.