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Brexit al 52%, Gran Bretagna via da Ue. E ora? Prevarrà il panico da contagio?

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L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, che aveva contribuito a fondare, è un campanello di allarme che deve risvegliare ricordi del passato, lezioni della storia sopite come i lager e i gulag, e far riflettere su un dato di fatto: le nuove generazioni del nostro continente non hanno mai conosciuto l’orrore della guerra. Una scelta che fa male, soprattutto quando il pensiero va alla morte di Jo Cox, uccisa perché credeva fortemente nel ‘remain’.
Ma resta il risultato di questo referendum che ha visto la maggioranza dei cittadini UK decidere per il ‘leave’ senza incertezze nonostante i rischi a cui sarebbero stati esposti.
Il voto dei britannici dà il via a una lunga e complessa procedura di addio, mai applicata finora, che porterà Bruxelles e Londra a costruire un nuovo rapporto su basi completamente diverse.
Il premier David Cameron, annunciando le sue dimissioni stamani, ha chiarito che non sarà lui ad avviare la causa di divorzio, ma che il compito spetterà al prossimo premier, presumibilmente dopo l’estate.
Già oggi è prevista una riunione straordinaria delle più alte cariche dell’Unione, il presidente Donald Tusk, il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, il presidente del Parlamento Ue Martin Schulz e il premier olandese Mark Rutte, il cui Paese ha la presidenza di turno della Ue. Tusk ha detto che farà di tutto per preservare l’unità e la stabilità dell’Europa a Ventisette, fin da prossimo vertice Ue del 28-29 giugno, a
margine del quale si terrà una riunione con l’esclusione d i Cameron. Domani i ministri degli Esteri dei sei Paesi fondatori dell’unione si vedranno a Berlino mentre il presidente francese Francois Hollande lunedì vedrà la cancelliera tedesca Angela Merkel.
Cameron ha chiarito che sarà il prossimo inquilino di Downing Street a far scattare l’articolo 50 del trattato di Lisbona del 2009, che stabilisce le procedure per l’uscita di un Paese dall’Unione.

Il dispositivo afferma che qualunque stato membro possa decidere di ritirarsi dall’Unione nel rispetto delle proprie norme costituzionali e preparare la procedura per farlo.
Le norme europee hanno stabilito in due anni il termine per sciogliere tutti gli obblighi contrattuali prima che un Paese possa ufficialmente
uscire dall’Unione, al netto di possibili proroghe da concordare. Ma il negoziato per stabilire un nuovo rapporto tra Bruxelles e Londra indipendente potrebbe durare molto di più.
Tusk ha avvertito che per ottenere il via libera di tutti i 27 Stati restanti, più il Parlamento europeo, potrebbero volerci altri cinque anni, per un totale di sette.
Il campo ‘leave’ mira, invece, a un negoziato veloce e a lasciare l’Unione entro la fine 2019.
Il sottosegretario Chris Grayling, favorevole all’uscita dalla Ue, prima del voto aveva detto al Financial Times che l’UK, una volta scelta la Brexit, avrebbe subito approvato leggi per limitare i movimenti dei cittadini Ue.
Ma per il momento non cambia nulla per gli ‘stranieri’, italiani in primis, che vivono e lavorano nel Regno Unito.
Sono circa 600mila i nostri connazionali che ora temono di incappare in una serie di complicazioni e penalizzazioni, a partire dalla necessità di ottenere un permesso di soggiorno o il decadimento della copertura sanitaria garantita dalla reciprocità europea dei servizi.
E’ molto probabile che verranno poi rivisti i sussidi di disoccupazione, come potrebbero cambiare le regole per ottenere un posto in una casa popolare.
Per ora sono tutte ipotesi, le decisioni matureranno solo nell’ambito dei negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’Ue.
A parte questi aspetti che coinvolgono coloro che sono direttamente investiti dalla decisione dei britannici, il loro rifiuto di ‘Europa’ deve preoccupare per il futuro stesso dell’Unione.
Questa scelta deve spaventare più dei ‘muri’ di Ungheria e Slovenia.
Se un Paese che ha contribuito a realizzare l’architettura democratica di un progetto comune ambizioso decide di abbandonarlo, significa che l’UE non è più in grado di portare avanti la sua politica.
Il risultato di oggi ci sorprende, ma guai a lasciarsi immobilizzare. Se semini euro scetticismo per anni, scarichi su Bruxelles ogni responsabilità per i fenomeni nuovi della storia che non comprendi o non sai (puoi) governare, accarezzi la scorciatoia del nazionalismo, ti imbarchi in un negoziato per essere ancora più distante da ciò a cui comunque non aderisci con convinzione, il minimo che può capitare è che gli elettori ti ascoltino e mettano nelle urne la traduzione di ciò che hai detto loro. E questo vale per tutti i partiti.
La domanda da porsi adesso è, prevarrà il panico da contagio o l’Europa si darà finalmente una mossa?
Un elemento è inconfutabile: serve una riforma che riporti al centro delle politiche europee i cittadini, lasciando in disparte logiche sterili basate sulla burocrazia. Bisogna riscoprire i pricipi di solidarietà, e di convivenza alla base della costituzione dell’Unione europea. Ideali in cui bisogna ancora credere e difendere. Insieme.


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