L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta e segue le linee guida islamiche in materia di successione. L’Arabia Saudita è l’unico Paese al mondo che vieta alle donne di guidare veicoli e uno dei pochi Paesi a non avere un parlamento. Dal 23 gennaio 2015 il Re dell’Arabia Saudita è Salmān bin ʿAbd al ʿAzīz Āl Saūd.
Nemmeno i recenti casi denunciati dalle organizzazioni in difesa dei diritti umani hanno impedito a Faisal bin Hassan Trad di ricevere l’incarico da parte delle Nazioni Unite. Il più recente riguarda Alì Mohammed Al Nimr, figlio di un oppositore politico e arrestato appena 17enne per aver partecipato a una manifestazione contro la monarchia saudita con l’accusa di detenzione illegale di armi. A 20 anni è stato condannato alla pena capitale per decapitazione e successiva crocifissione fino alla putrefazione. Il caso di Alì ha smosso l’opinione pubblica internazionale che da giorni chiede l’annullamento della condanna per un ragazzo colpevole di aver manifestato il proprio dissenso verso il regime quando era ancora minorenne.
Ormai non ci sono più aggettivi per descrivere l’ONU e in particolare il fantomatico Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha nominato Faisal bin Hassan Trad, ambasciatore saudita all’ONU, a capo di un gruppo di diplomatici che sarà incaricato di scegliere i candidati a ruolo di “esperti delle Nazioni Unite” da inviare in quei Paesi dove l’ONU ritiene che i Diritti Umani vengano violati. La cosa è tragica. L’ambasciatore dell’Arabia Saudita, cioè di uno dei Paesi che più al mondo viola i Diritti Umani, nominato a capo di una squadra che dovrà decidere chi inviare a monitorare il rispetto dei Diritti nel mondo.
Più che giusta l’indignazione di Ensaf Haidar, moglie di Raif Badawi (nella foto), il blogger saudita condannato a 1.000 frustate perché aveva osato affermare che in Arabia Saudita non c’è libertà di parola. La signora Ensaf Haidar aveva avuto la sventurata idea di rivolgersi proprio al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite per ottenere giustizia per suo marito e la risposta che ha ottenuto è stata questa.
Ma, a parte il caso di Raif Badawi, basta guardare sia la composizione che le risoluzioni del famigerato Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu per rendersi conto di quanto scandaloso e vergognoso sia questo organismo letteralmente dominato dai peggiori violatori dei Diritti Umani. E con questa nomina si è davvero toccato il fondo. Human rights watch ha ricordato che cinque dei Paesi che hanno ottenuto un seggio (Cina, Russia, Arabia Saudita, Vietnam e Algeria) non hanno consentito l’accesso nei loro territori agli osservatori per i diritti umani dell’Onu che dovevano verificare presunte violazioni.
Dal rapporto sull’uso della pena di morte nel mondo, diffuso da Amnesty International, risulta un drammatico aumento del numero di esecuzioni, che ha fatto sì che nel 2015 siano state messe a morte più persone che in qualsiasi altro anno dell’ultimo quarto di secolo. La spirale di esecuzioni è dipesa in larga parte da Iran, Pakistan e Arabia Saudita. In sintesi, nel 2015 sono stati messi a morte almeno 1634 prigionieri, oltre il doppio rispetto all’anno precedente e il piè alto numero registrato da Amnesty International dal 1989. Il dato del 2015 non comprende la Cina, paese dove è probabile che le esecuzioni siano state migliaia e che tuttavia tratta le informazioni sulla pena di morte come segreto di stato.
“L’aumento delle esecuzioni, lo scorso anno, è profondamente preoccupante. Mai negli ultimi 25 anni erano state messe a morte così tante persone. Nel 2015 i governi hanno continuato senza tregua a togliere la vita sulla base del falso assunto che la pena di morte ci rende più sicuri – ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International -. Iran, Pakistan e Arabia Saudita hanno fatto un uso senza precedenti della pena di morte, spesso al termine di processi gravemente irregolari”.
“Per fortuna, gli Stati che continuano a eseguire condanne a morte sono una piccola e sempre più isolata minoranza – ha proseguito Shetty -. La maggior parte ha voltato le spalle alla pena di morte e nel 2015 altri quattro Paesi hanno abolito del tutto questa barbara sanzione dai loro codici”. Aumento causato da Iran, Pakistan e Arabia Saudita. Se si esclude la Cina, l’aumento globale delle esecuzioni nel 2015 è dipeso in larga parte da questi tre paesi, responsabili di quasi il 90% di tutte le esecuzioni registrate da Amnesty International.
Quali sono le posizioni di Europa e Stati Uniti riguardo alla violazione dei Diritti Umani in Arabia Saudita e nei Paesi arabi più in generale?
Politicamente le reazioni sono univoche e non come pensiamo o speriamo, di indignazione, di protesta, di richiamo degli Ambasciatori nei propri Paesi, ma timidi inviti al rispetto dei Diritti Umani, bisbigliati in “camera caritatis”. Non vi sono mai state prese posizioni nette, dure e corali, perché la dipendenza dal petrolio saudita di USA ed Europa è forte e non possono permettersi di “innervosire” un partner commerciale così importante.
L’Arabia Saudita è il primo consumatore al mondo di prodotti di lusso; dai gioielli alle fuoriserie, dalle ville faraoniche sulla Costa Azzurra ed in Sardegna ai panfili “made in Europe”. Sono voraci consumatori del lusso sfrenato che viene fornito loro in abbondanza da Maserati, Ferrari, Lamborghini, abiti acquistati a dozzine dai migliori stilisti italiani a Milano, gioielli, affitto di due piani d’albergo a 5-6- stelle. Insomma, gli arabi non sono clienti qualsiasi, ma la “manna” discesa dal cielo e ad un cliente così, nessuno Stato può rimproverare alcunché.
Com’è noto gli americani hanno basi militari importanti in Arabia Saudita; essi rappresentano il “braccio armato” saudita, che vive sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti. Un “matrimonio” perfetto; l’America ha sempre più bisogno di petrolio, gli Arabi di protezione armata e di differenziare i propri investimenti in hotel di lusso, grandi magazzini, fabbriche europee, consapevoli che prima o poi, la “manna terminerà”.
L’Arabia Saudita, a maggioranza sunnita, da diversi anni ha mosso guerra non dichiarata ai Paesi islamici a maggioranza sciita: Iran, Pakistan, Yemen e Iraq. L’Iran da solo ne ospita quasi 70 milioni, circa il 40 per cento della popolazione totale degli sciiti nel mondo. Con i petrodollari e le armi americane, cerca di sterminare gli sciiti nelle nazioni in cui sono maggioranza cercando in tutti i modi di mandare al potere “uomini” sunniti a lei fedeli, per il controllo politico e delle immense risorse del sottosuolo di quelle nazioni.
Uno Stato despota appoggiato incondizionatamente dalla “civile” Europa e dalla “furba” America, perché 151 persone, condannate a morte da Riyadh, sono un “prezzo accettabile” in cambio dei fiumi di petrolio che riescono ad avere a basso costo.
Riyadh è pronta a giustiziare 55 persone in un giorno; fra questi vi sono condannati per reati legati al terrorismo e rivolta interna. Le esecuzioni sarebbero “imminenti”. Nel 2015 giustiziate 151 persone, il numero più alto dal 1995. Attivisti pro diritti umani accusano il governo di usare le condanne a morte per risolvere i problemi di dissenso interno. Secondo il quotidiano Okaz, almeno 55 persone sono in attesa di essere giustiziate per “reati di terrorismo”; anche il sito internet del giornale al-Riyadh ha pubblicato un articolo – poi cancellato – che parlava di 55 esecuzioni “imminenti”.
Fra i detenuti in attesa di essere giustiziati vi sono anche alcuni sciiti, che hanno partecipato a proteste anti-governative in passato. Attivisti pro diritti umani ricordano il numero crescente di condanne a morte effettuate lo scorso anno nel regno; per questo, avvertono, la notizia di una possibile esecuzione di massa è da prendere con estrema attenzione e serietà. Nel 2015 sarebbero state giustiziate almeno 151 persone, il numero più alto dal 1995. Nel 2014 “solo” 90.
Esperti e organizzazioni per i diritti umani sottolineano che il governo di Riyadh sfrutta l’accusa di terrorismo e rivolta, come nel caso di sei giovani attivisti di Awamiya, per “risolvere discussioni politiche” e problematiche con la minoranza interna. Nei giorni scorsi le madri di cinque dei sei giovani della città in attesa di essere giustiziati hanno scritto una lettera a re Salman, in cui chiedono al monarca di concedere la grazia ai loro figli.
Anche diverse Ong hanno chiesto al governo di interrompere le esecuzioni capitali e di dissolvere la nebbia che avvolge i casi di condanne a morte. Da anni le principali associazioni per i diritti umani si battono per imporre al regno saudita processi più equi ed esecuzioni meno crudeli. L’Arabia Saudita decapita i condannati nella pubblica piazza, affinchè sia di monito agli altri. Spettacoli raccapriccianti ma sempre affollati di persone che “amano” assistere a queste crudeltà umane.
La pena capitale nel regno saudita è prevista per i colpevoli di omicidio, rapina a mano armata, stupro e traffico di droga, ma anche per stregoneria e sodomia. Il quadro generale non è confortante. In Arabia Saudita una nuova legge equipara “ateismo” e “terrorismo”. Non meno crudeli sono le condanne per crimini minori, come il furto e il reato di opinione, che oltre al carcere, prevedono il taglio della mano o del piede e la fustigazione in piazza.
“Non c’è da preoccuparsi”, sapendo che a capo della Commissione per i Diritti Umani dell’Onu ci sia l’ex ambasciatore saudita Faisal bin Hassan Trad, quale migliore garanzia si può desiderare.