Vai al Salone del libro di Torino; ti capita di passeggiare un po’ per la città, e ti ritrovi nella centrale galleria che mette in comunicazione via Pietro Micca con piazza Solferino; e vedi una targa che a quella Galleria dà il nome: “Galleria Enzo Tortora”. L’omaggio a una persona vittima di una gravissima persecuzione giudiziaria che si è consumata a partire dal 17 giugno 1983, e che è rimasta impunita. Una targa semplicissima: “Enzo Tortora Genova 30.11.1928 – Milano, 18.5.1988”. Morto ad appena sessant’anni, Enzo; e già ventotto anni fa…
Mi sono chiesto se Enzo Tortora ne sarebbe contento, di quella galleria a lui intitolata. Tutto sommato, penso di sì, a patto…
A patto di non dimenticare, di continuare a ricordare che il “caso” Tortora non è solo il “caso” Tortora, ma è il “caso” Italia: il caso della giustizia negata, del diritto calpestato, della conoscenza che non abbiamo, che ci viene impedita.
A patto di non dimenticare che le nostre prigioni sono ancora quel luogo, quella realtà, come ha detto il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, che ci umilia in Europa e ci condanna, per la sofferenza umana che patiscono detenuti, agenti di custodia, personale della comunità penitenziaria.
A patto di non dimenticare che ogni anno, nelle nostre prigioni, si consumano decine di suicidi, detenuti e anche agenti di custodia, per non parlare dei tentati suicidi, delle altre morti “naturali” e delle migliaia di atti di autolesionismo…
A patto di non dimenticare che la cattiva giustizia per magistrati che hanno sbagliato in modo clamoroso, come nel “caso” di Tortora dal 1992 ad oggi ci è costata qualcosa come 600 milioni di euro. Ed è il sottosegretario alla Giustizia Enrico Costa ad ammettere che si registra un aumento dei casi e dei pagamenti, e che oggi nessuno valuta se il comportamento di quel magistrato deve essere sanzionato sotto il profilo disciplinare.
A patto di non dimenticare che ancora oggi si consumano “casi” come quello di Tortora; quello, per esempio, del signor Mirko Turco, accusato da sette “pentiti”, un consorzio, si potrebbe dire; processi durati ben diciassette anni, una condanna all’ergastolo, undici anni scontati in carcere; alla fine dichiarato “innocente”. I-N-N-O-C-E-N-T-E. Come si fa, in questi casi, a liquidare la vicenda come “errore giudiziario”?
Come mai e perché lasciamo ai radicali e a pochissimi altri, il compito di sollevare la questione del danno erariale provocato da questa mala-giustizia, i costi concreti e reali di questo modo di non assicurare giustizia? Credo di essere stato tra i primi a capire, il giorno stesso del suo arresto, che c’era qualcosa che non andava nell’“affaire” Tortora, quando veniva esibito come un mostro, e di una mostruosità era invece vittima; mostruosità che poteva essere vista, non ero io il più bravo; è che non la si voleva vedere, quella mostruosità. E quel che “dopo” si denunciò, lo si poteva denunciare subito, fin dalle prime ore. Come mai e perché fummo meno di dieci, Piero Angela, Giacomo Ascheri, Massimo Fini…? Serviva non vederla quella mostruosità? E a chi? Perché?
Per il “TG2” una volta ho intervistato la figlia di Tortora, Silvia. Intervista istruttiva. Quando Tortora venne arrestato, cosa c’era oltre alle dichiarazioni di un camorrista psicopatico, Giovanni Pandico; e un killer delle carceri che aveva mangiato l’intestino di Francis Turatello, Pasquale Barra? “Nulla”. E’ stato pedinato, controllato? “No”. Intercettazioni telefoniche? “No”. Ispezioni bancarie? “No”. Definito “cinico mercante di morte”, su quali prove? “Nessuna”. Qualcuno ha chiesto scusa a suo padre? “Nessuno”. Gli accusatori hanno pagato per le loro false accuse? “No”. E i magistrati del caso Tortora? Loro hanno fatto tutti carriera. Tutto questo non va dimenticato. “Perché non sia un’illusione”, si legge nell’epigrafe della tomba di Tortora a Milano dettata da Leonardo Sciascia. Ecco: ricordare, perché se si dimentica, allora sì, davvero, tutto è stato inutile, è un’illusione.