L’odio etnico è una lebbra, un morbo che si propaga per contagio, inarrestabile. Nell’ex Yugoslavia di Tito, crollato il dispotico potere centrale, le divisioni interne sono riesplose, distruttive, con tutto il retaggio di oscure rivalità incrostate di odi, rancori, vendette. Confluendo infine nella guerra dei Balcani in cui uccisioni, stragi, stupri e crudeltà di ogni genere hanno rinfocolato le antiche avversioni mai sopite e ancora serpeggianti ai nostri giorni.
In “SOLE ALTO” il quarantenne regista croato Dalibor Matanić, prova a raccontare la tragedia della sua terra restringendo il campo visivo a un microcosmo esemplare: una coppia che non riesce ad essere tale perché osteggiata dall’ambiente. E situa tre storie in una, in un arco di tempo che abbraccia due decenni: dall’inizio della guerra (1991), al faticoso risorgere dalle macerie postbelliche (2001), all’avvento di una turbolenta ma possibile nuova stagione di pace (2011).
Jelena e Ivan sono due ragazzi dolcemente infatuati, l’una serba e l’altro croato, che a dispetto delle reciproche famiglie sognano di coronare il loro amore trasferendosi a Zagabria lontani da tutto. Sono felici, ridenti, talmente attratti reciprocamente da non resistere a fare l’amore anche fra le dune della spiaggia dove, quando possono, si rifugiano per una nuotata e una vorace intimità. Lui nel tempo libero suona la tromba nella banda cittadina, lei appena può corre a cercarlo nel bar degli amici dove i due vengono inevitabilmente accolti con divertita ironia. Si vogliono troppo bene per stare a lungo separati. Ma un brutto giorno vedono arrivare una colonna di mezzi corrazzati a presidiare i confini che separano i loro due paesi. Il fratello di Jelena non ammette che la ragazzina se la faccia con il nemico e che la madre le tenga bordone, e così la prende a schiaffi in pubblico, la trascina di forza a casa: Ivan si oppone con tutte le forze, ma pacificamente, suonando a gran fiato il suo strumento, correndo dietro all’auto che gli porta via l’amato bene. Finché, come spesso accade, il facinoroso scatena un incidente in cui il fidanzatino di Jelena viene colpito in fronte dal colpo di fucile di un militare. La guerra divampa ormai in tutti i Balcani.
Quando il terribile conflitto ha termine rimangono solo edifici distrutti, desolazione, contrade fantasma. Nataša e la madre (non ha importanza che sia la stessa ragazza del primo episodio anche se l’attrice è la medesima, Tihana Lazović) ritornano nella loro casa ridotta a un rudere, le finestre come orbite spalancate, muri e solai diroccati, i mobili a pezzi. “La rimetteremo a posto” sentenzia la figlia acida e indurita, in lotta contro un invisibile spettro che la divora. Nel circondario non ci sono più uomini, a parte Ante (Goran Marković), un bravissimo giovane carpentiere rimasto in paese per non abbandonare la madre sola e inferma. Il quale si mette subito all’opera: ogni giorno arriva con il suo furgone e i suoi attrezzi e lavora a testa bassa, senza mai fermarsi. A ora di pranzo si accontenta di un panino, che mangia in disparte perché non viene neppure invitato a sedersi a tavola con le due donne: la diversa etnia crea un’inevitabile trincea tra loro. In guerra i loro popoli sono stati nemici e Nataša non ammette cortesie nei confronti del giovane, che il buon senso della madre invece vedrebbe volentieri come possibile genero. La ragazza è sempre assente, sgarbata, isolata ad ascoltare musica con le cuffie sulle orecchie, corrosa da un livore inestinguibile. Ma il ragazzo la attrae più di quanto sarebbe disposta ad ammettere. E l’ultimo giorno di lavoro, quando la casa è ormai ristrutturata e imminente il distacco, è lei a gettarglisi tra le braccia; famelica glielo succhia, gli si offre con insaziabile furore, salvo liquidarlo in malo modo a cose fatte, ritraendosi sulla sua sponda irraggiungibile, intrisa di infelicità.
Siamo nel 2011. Marija – ancora la stessa e sempre diversa – vive senza un uomo ma con un figlio bellissimo di quattro o cinque anni, nel paese in cui abitano anche i genitori di Luka; dai quali il giovane ha da tempo preso le distanze, essendosi laureato in ingegneria e trasferitosi in città. Ma gli amici di un tempo hanno aperto un locale dove si organizzano rave sfrenati e accorrono ragazzi e ragazze da ogni parte. Una sera anche Luka si lascia coinvolgere: tutti nudi fanno il bagno sotto la luna, e una ragazza molto attraente attende solo un suo cenno. Ma sul più bello lui si tira indietro. Nel pomeriggio ha fatto un’ispida, breve visita ai genitori soli e spenti, ed ora va a cercare la casa della sua antica innamorata. Lei non se lo aspetta, scontrosa gli mostra il bambino che dorme nel lettino, lui scopre di essere padre e il passato lo travolge tra l’amore ritrovato e sensi di colpa. E’ pronto a tornare, ma lei lo insulta, non vuole più saperne: non si è nemici per caso. Messo alla porta lui non si arrende, si siede sui gradini e rimane a trascorrere il resto della notte in attesa, con la testa tra le ginocchia. Marija si tormenta senza sonno nella sua stanza, accanto al figlio che dorme o sbirciandolo attraverso i vetri. E all’alba, accantonando il dissidio che la lacera, va semplicemente a dischiudere l’uscio, lasciando la porta aperta e rientrando in casa. Ha accettato la tregua.
Il regista è stato ispirato a farci rivivere in due sole persone la tragedia di un intero paese avviato forse, dopo tanti orrori, a un laborioso e incerto futuro di pace. Saranno i figli chiamati a compiere il miracolo, perché i figli non hanno colpe. A Medjugorje il francescano Padre Slavko, negli anni Novanta, aveva costruito la “Domus Pacis” , una struttura di accoglienza per le donne incinta, abusate in segno di sfregio e punizione durante la guerra. Suor Cornelia, una monaca santa, per anni è andata a recuperare uno a uno sulle montagne i bambini nati dagli stupri etnici e abbandonati a se stessi; nel suo istituto che si chiama “La famiglia ferita”, li ha nutriti, istruiti, circondati d’amore, consegnati a un lavoro, avviati a una esistenza ‘normale’.
Il film del quarantenne Dalibor Matanić, una co-produzione di Croazia, Serbia, Slovenia che ha ottenuto molti premi a cominciare dal Festival di Cannes, ci induce a pensare al miracolo della vita che è più forte di ogni odio. L’opera ci commuove proprio perché non si propone come un arido o saccente comizio politico, ma si scioglie in un componimento poetico; da vedere, da ascoltare. Come si ascolta la voce di un aedo.