Dopo 1013 giorni di carcere Mohamed Abou-Zeid, il fotoreporter egiziano da tutti conosciuto come Shawkan, è comparso ieri davanti alla Corte che dovrà giudicarlo per le accuse che hanno portato al suo arresto ormai tre anni fa. Prima di arrivare in aula per l’inizio del processo e professare la sua innocenza, Zeid ha subito violenze e intimidazioni che non lo hanno fiaccato.
L’imputato non ha avuto infatti timore a definire la sua prigionia “un atto senza senso”.
Il 27enne, la cui vicenda giudiziaria è iniziata nell’agosto del 2013, prima che il dibattimento venisse nuovamente rinviato ha chiesto al giudice le motivazioni ‘legali’ alla base della sua incarcerazione.
Gli agenti delle forze di sicurezza che lo avevano catturato mentre scattava delle foto nel corso della manifestazione a favore del presidente Morsi, destituito il mese precedente, non avevano voluto fornirgli alcuna spiegazione.
Quel giorno in piazza della moschea Rabi’a El-Adawiya, i poliziotti nel tentativo di disperdere la folla compirono un vero e proprio massacro di civili. Secondo le stime fornite dai Fratelli musulmani, mai confermate dalle autorità giudiziarie del Cairo, morirono non meno di 700 persone mentre i feriti furono oltre 2mila.
Quello che dopo il rovesciamento del governo di Morsi da parte del nuovo esecutivo di Abdel Fattah Al-Sisi era divenuto il punto di ritrovo dei sostenitori dell’ex Presidente, si è così trasformato nel simbolo di un vero e proprio martirio.
Shawkan, che aveva detto agli agenti di essere un giornalista, era stato ammanettato, picchiato e trascinato a bordo di una camionetta. Da allora non è più uscito dalla cella in cui è stato rinchiuso senza un vero capo di imputazione.
Per la sua liberazione si sono mobilitati in migliaia in Egitto e nel mondo, con in prima linea Amnesty international.
Ma finora nessun segnale di disponibilità a scarcerare il giovane è arrivato dalle autorità giudiziarie egiziane.
Come non sembrano intenzionate a rilasciare Ahmed Abdallah, il presidente della Commissione per i diritti e le libertà (Ecrf), consulente legale della famiglia di Giulio Regeni e coinvolto nelle indagini sulla morte del ricercatore italiano.
L’attivista ha raccontato a chi è riuscito ad avvicinarlo durante l’ultima udienza in Tribunale, dove si decideva della sua scarcerazione, di aver assistito a “un enorme numero” di casi di tortura durante i suoi ultimi giorni in stato di detenzione.
I giudici del tribunale di Abbassiya hanno stabilito ieri altri 15 giorni di custodia cautelare per Abdallah, arrestato il 25 aprile e accusato di terrorismo.
L’uomo ha dichiarato di essere finito in carcere per il proprio impegno sul dossier Regeni e ha raccontato che erano stati alcuni funzionari del ministero dell’Interno a dirglielo per incutergli timore.
“Ho visto alcuni prigionieri con segni di frustate sul corpo, altri sottoposti a scosse elettriche sugli organi genitali” ha affermato Abdallah alla presenza di diplomatici europei che erano presenti in aula aggiungendo che “le guardie inseriscono oggetti metallici sotto la pelle dei detenuti per aumentare il dolore provocato dalle scosse elettriche”.
Sul di lui pendono nove capi d’imputazione per i quali, secondo la nuova legge anti-terrorismo, rischia la pena di morte, come il suo collega Mena Thabet, accusato anche di far parte dei Fratelli musulmani.
Queste accuse, secondo i membri di Ecrf, sono state mosse nel quadro di un giro di vite delle ultime settimane contro le organizzazioni non governative.
Il governo di al-Sisi, oltre a inasprire la repressione nei confronti di dissidenti e attivisti, sta studiando una serie di norme bavaglio con le quali impedire alla stampa libera di continuare a denunciare le storture del regime che annovera, tra i tanti crimini e le violazioni dei più basilari diritti della popolazione egiziana ma anche di stranieri ‘non graditi’, la responsabilità della morte di Regeni, o quanto meno la volontà di insabbiare i nomi dei colpevoli della sua atroce fine: il nostro connazionale è stato chiaramente ucciso dopo giorni di torture.
Per questo continuare a chiedere verità per Giulio Regeni, e tutti i desaparecidos d’Egitto, resta un dovere, una priorità, nonostante la solidarietà dovuta al Paese e al governo per il disastro dell’Egyptair.