“Se, per miracolo, qualche secolo venisse aggiunto ai pochi giorni che mi restano, rifarei le stesse cose, persino gli stessi errori, frequenterei gli stessi Olimpi e i medesimi Inferi”
Il ricordo più bello di un imperatore con l’anima squarciata dal teatro vive tra le mirabili righe di Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, opera amata e più volte portata in scena da Giorgio Albertazzi, morto sabato mattina all’età di 92 anni, nella tenuta di famiglia in Maremma, in località La Pescaia, nel Comune di Roccastrada.
“Il suo cuore ha smesso di battere alle ore 9”, racconta in una nota la famiglia, accanto a lui, nel palcoscenico della vita la moglie Pia De’ Tolomei, così se n’è andato il più grande attore del teatro italiano, nato a Fiesole, aveva iniziato a recitare accanto a prodigi di bravura come Renzo Ricci e Memo Benassi, poi nel 1949 il debutto in “Troilo e Cressida” di Shakespeare, con la regia di Luchino Visconti al Maggio Musicale Fiorentino.
Il teatro, malgrado innumerevoli ruoli da protagonista in film e sceneggiati televisivi, indimenticabili le interpretazioni in Delitto e castigo, regia di Franco Enriquez nel 1954, L’idiota del 1959, dal romanzo di Dostoevskij, e il Jekyll del 1969, tratto dal Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Louis Stevenson, resta per Albertazzi l’incarnazione della vita, il superamento dell’io verso lo straordinario della poesia e dell’amore.
Dal 1956 inizia a lavorare con Anna Proclemer, in un sublime e lungo sodalizio di vita e artistico, da Shakespeare a Ibsen, da George Bernard Shaw a Vitaliano Brancati, da Pirandello a D’Annunzio, sipari di meraviglia pronti a schiudersi senza tregua sera dopo sera.
Nessuno è vissuto così vicino all’essenza della leggerezza, salvifica in assoluto, come Giorgio Albertazzi, la citava spesso nel ricordo delle Lezioni americane di Italo Calvino, e oggi l’etichetta di attore e regista sembra debole per chi ha saputo procurarci infiniti travagli di passione, catapultandoci con i sensi in imprevedibili altrove.
Miracoli di parole nel buio, il ricordo di un uomo che aveva la capacità di sconvolgerti, solo, nella sua veste bianca, è anche l’immagine di chi non ha mai interpretato il ruolo della vittima, di chi ha scelto appena ventenne la parte sbagliata, di chi ha pagato Salò per tutta la vita con un’etichetta di vergogna tatuata sulla pelle d’attore, di chi non ha mai omesso di raccontare piazzale Loreto come un “teatro dell’orrore”.
Giorgio Albertazzi ha vissuto d’arte sino alla fine, tra le sue ultime opere “Il mercante di Venezia” e “La tempesta” di William Shakespeare interpretate come sempre in eterna purezza:
“Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti…”
“Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar