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Pino Maniaci, una storia di poche luci e molte ombre

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La vicenda che vede protagonista Pino Maniaci è delicata sotto molti aspetti. In primo luogo c’è, ovviamente, il fascicolo che lo vede indagato per reati gravi (tra cui l’estorsione) che nulla hanno a che fare con la professione di giornalista, e che ha già portato a un provvedimento di divieto di dimora in ben due province siciliane. Su questo saranno i giudici e i suoi difensori a giocarsi la partita e noi non vogliamo entrarci, perché, da strenui difensori della Costituzione, riconosciamo a tutti, proprio a tutti, la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio. E per questo ci sentiamo in dovere di riportare la sua professione d’innocenza: “Sono amareggiato perché sono già stato condannato e perché – ha aggiunto – per notificarmi un divieto di dimora aspettano un’operazione antimafia … Il fine è questo: infangare Pino Maniaci e Telejato per arrivare alla chiusura“. E ancora: “si tratta di una ritorsione: pago per le mie denunce contro Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo”.
Non sappiamo come andrà a finire la storia. Da cronisti ci limitiamo a riportare quanto anticipato dall’avvocato difensore Antonio Ingroia: “Denunceremo una serie di fatti legati alle amministrazioni locali di Partinico e Borgetto e denunceremo per calunnia alcune delle persone offese, che hanno agito per motivi di rancore contro il nostro cliente”, ha spiegato l’ex procuratore aggiunto di Palermo. “Abbiamo anche intenzione, però, di depositare alcune denunce relative alla gestione di quest’indagine mediatica”, ha aggiunto Ingroia, mettendo nel mirino il video con le intercettazioni di Maniaci diffuso dall’Arma dei Carabinieri. “Quel video è un corpo del reato perché mette insieme intercettazioni che non sono nell’ordinanza, visto che sono penalmente irrilevanti: servivano solo a distruggere l’immagine pubblica del mio cliente”.
Proprio su questo passaggio, però, sorge la questione del giudizio sul personaggio pubblico, quale Pino Maniaci è. Fatta salva la verifica sulla veridicità del video delle intercettazioni, da cronista di lungo corso Maniaci non può lamentarsi proprio della pubblicazione delle intercettazioni che lo riguardano, anche di quei passaggi “penalmente irrilevanti”: abbiamo sempre affermato e continuiamo a affermare la necessità imprescindibile della pubblicazione delle intercettazioni come strumento di conoscenza, e quindi di consapevolezza per i cittadini, e per questo diritto-dovere dei cronisti di pubblicare ciò che si viene a sapere abbiamo ripetutamente difeso i colleghi messi sotto inchiesta o vittime di quel bavaglio giuridico che sono le querele temerarie. Semmai, c’è da chiedere che vengano rese pubbliche per intero le intercettazioni effettuate nell’ambito di questa inchiesta, così da chiarire il senso completo di quelle frasi e di quelle azioni.
Comunque, pur facendo la tara sul linguaggio di Maniaci (lui stesso ammette “al telefono sono sboccato”), i contenuti delle intercettazioni che lo riguardano (e di cui, precisiamo, noi abbiamo appreso dagli organi di stampa, non essendo in possesso di documentazione diretta) delineano una figura con molte ombre e poche luci, a cominciare dalle parole sui soldi incassati da uno dei sindaci che avrebbe ricattato (“gli devo fottere altri 50 euro”), o ancor più dal modo sprezzante di liquidare l’atroce fine dei suoi cani a elemento da sfruttare per fare un salto di qualità nella sua immagine e ottenere la scorta (si sente nelle registrazioni) o per questioni vilmente personali (“In quella telefonata ho cercato di fare sentire in colpa una persona per avere il mio ritorno personale” si giustifica lui). Vivere sotto scorta, per quanti, giornalisti, magistrati, scrittori, devono farlo per reale necessità di sopravvivenza non è uno “status” di cui vantarsi, anzi, comporta il sacrificio della propria vita da libero cittadino e, spesso, della libertà di movimento dei propri cari. Sventolare questa protezione come un privilegio, oltre che fuori luogo, danneggia proprio quanti devono subirla, danneggia in primo luogo i cronisti minacciati, che già in quanto giornalisti vengono spesso additati da populisti e dai complici di corrotti e mafiosi come una casta tra le caste.
Poi c’è la questione, potremmo dire, deontologica. L’avvocato Ingroia precisa che i soldi presi da Maniaci nella stanza del sindaco di Borgetto (che abbiamo visto nel video della telecamera nascosta dagli inquirenti) riguardavano dei diritti per uno spazio pubblicitario comprato dalla moglie negoziante. Il che è credibile, sappiamo come soprattutto i media locali per sopravvivere debbano fare vere e proprie collette tra le poche realtà con qualche risorsa, in particolare tra commercianti e amministrazioni pubbliche. Certo, regola di opportunità avrebbe voluto che quei soldi non fossero stati chiesti ad amministratori che, ricordiamolo, si muovevano in un ambiente ad alta densità mafiosa che, quindi, avrebbe suggerito precauzioni diverse da un cronista accorto e indipendente. Per non parlare delle presunte rivelazioni riguardanti le inchieste che sarebbero in corso sull’amministrazione del sindaco in questione.
Ma quello che proprio è inaccettabile da parte di un giornalista è una frase del tipo “Quello che non hai capito tu è la potenza di Pino Maniaci! Ormai tutti e dico tutti si cacano se li sputtano in televisione … si fa come dico io e basta, decido io, non loro, loro devono fare quello che dico io, se no se ne vanno a casa!”. Tutti abbiamo diritto di avere il nostro momento “fuori le righe”, ma questo modo d’intendere l’autorevolezza faticosamente conquistata da un bravo cronista grazie alle inchieste svolte non l’ho riscontrata mai in colleghi anche di fama internazionale, in Italia e fuori, da Lirio Abbate (che vive sotto scorta da quasi quattro anni per la sua inchiesta sui ‘Quattro Re di Roma’ e continua a camminare domandando e ascoltando), a Giovanni Tizian, persona schiva che continua a fare i conti con la tragedia dell’uccisione del padre da parte della ‘ndrangheta; fino a John Goetz, caporedattore del team d’inchiesta del Suddeutsche Zeitung e NTV e membro dell’ICIJ, la rete giornalistica internazionale che di recente ha diffuso i ‘Panama papers’, e al tedesco Günter Wallraff, che ha addirittura creato il genere del giornalismo d’inchiesta sotto copertura e ora cerca di formare nuove generazioni di cronisti che prendano il suo testimone; anzi, spesso proprio da chi consuma (oggi magari virtualmente) le famose suole di scarpe inseguendo storie da svelare si può ricevere un messaggio di grande umiltà e un mettersi continuamente in discussione che nulla ha da spartire con l’arroganza di quelle e di altre frasi che abbiamo dovuto ascoltare da quelle registrazioni.
Quello che certamente non consentiremo è, da un lato, che cronisti, attivisti, cittadini, tantissimi giovani che il contrasto alle mafie lo mettono in pratica quotidianamente, vengano delegittimati da questa come da qualunque altra vicenda sia uscita (e sono tante) su pretesi paladini antimafia; e d’altro lato, non dobbiamo lasciare che le inchieste su cui lavorava Telejato nei suoi giorni luminosi siano dimenticate dall’informazione e da tutti. Anzi, la “vicenda Pino Maniaci”, per dirla così, deve richiamare tutti ad approfondire denunce, verifiche, anche dentro casa propria. Non si contrasta il malaffare e neanche le presunte calunnie gridando al complotto, ma diventando più trasparenti.
Scrive dal suo blog Riccardo Orioles: “Telejato deve continuare”. Anche noi siamo convinti che Telejato debba continuare, anzi debba tornare a essere quello che è stato fino a che il suo direttore non ha perso la bussola e si è sentito onnipotente. Ma deve anche guardarsi dentro, come devono fare tutte quelle realtà che dall’originario impegno contro le criminalità sono state sviate da dirigenti affamati di potere, se non di altro, e da una presunzione di intoccabilità. Senza paura, fare pulizia è faticoso e doloroso, anche umiliante, ma rigenera e riporta alle origini, sane, del contrasto alle mafie e della costruzione di una cultura della legalità: denuncia come azione primaria, totale autonomia da centri di affari e di potere, presenza sul territorio, limpidezza di comportamenti, condivisione dei saperi: caratteri comuni anche al nostro vituperato mestiere di giornalisti.


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