Non era riuscito, Lino Toffolo, a nascere a Betlemme, (“l’idea era già stata ampiamente sfruttata”). Pur se il carissimo, lagunare (‘ma forse più lunare’) attore e regista appena scomparso (seraficamente stralunato, morfologicamente buffo e beffardo), il suo piccolo posto in paradiso se lo era conquistato da tempo, rivelandosi (in filigrana, per chi sapeva intendere) una sorta di ‘angelo ubriaco’, ben diverso da quello – tragico ed atroce Mifune- del celebre film di Kurosawa. Più alacremente, una sorta di spirito allegro e sorgivo che, dai laboratori di vetro di Murano (dov’era nato e fattosi provetto artigiano), saltellava burlone tra campi e campielli, per poi concedersi vorticosi trasbordi (ruzantiani, goliardici, guastafeste) in quel di Milano, dove già negli anni sessanta era già a fianco –presso lo storico Derby Club- dei più acclamati cabarettisti di allora: Jannacci e Gaber, Franco Nebbia, Cochi e Renato – con straordinarie, vorticose incursioni di elfi come Dario Fo, Umberto Eco, Paolo Villaggio e l’ingiustamente dimenticato (strepitoso, surreale, raffinato) Giustino Durano.
Anche se goliardico e stanziale durante la prima giovinezza, a Toffolo non mancava infatti una solida esperienza di palcoscenico, in parte dovuta alle frequentazioni –da ragazzo- della storica compagnia (goldoniana -doc) di Cesco Baseggio (alla cui morte, egli ereditò il vessillo di certo umorismo sorgivo, regionale, ma non circoscritto); e soprattutto dalla autonoma capacità di metter su compagnia e trasferimenti in vaporetto (di scene, costumi, trovarobato) per le recite estive (a Ca’ Giustinian) di maschere, tipologie, personaggi della tradizione veneziana: fra i quali il rinomato Sior Tita Parron – che gli valse una prima scrittura in Rai per la stesura della sigla d’apertura (voce, musica parole) dei programmi prodotti dalla sede regionale.
Esperienza cui fece seguito, proprio nei lustri di residenza a Milano, la proficua collaborazione (televisiva) con Giorgio Gaber, che lo volle ospite fisso di un programma allora acclamato (metà anni sessanta) dal titolo “Giochiamo agli anni trenta”, dove Lino (che, di suo, apprezzava il vino ma senza stravizi) s’inventò il personaggio dell’ubriacone innamorato che sollazzava i teleutenti all’ inno di “Oh Nina..vien già da bascio che te vojo ben…”- e altri tormentoni (molto orecchiabili) che adesso non ricordo. Tranne uno, il più anarchico e ‘precocemente antipolitico’, annoverabile in epoca democristiana (o primo centro sinistra). Quando, per farla breve, e di nuovo con slancio da cherubino, Toffolo invitava il Padreterno ad un patto nemmeno poi strampalato, del tipo “…questa gente non la sopporto più\ quindi io provo a spedirtela su\ e poi tu..vedi tu”. Superfluo aggiungere che qualche ‘sor Parron’ dei partiti di maggioranza si offese e per un po’ ebbe in uggia il pacifico mattacchione.
Già negli anni settanta, Lino Toffolo viene catturato e coinvolto in imprese cinematografiche di spessore variabile: dal canzonettistico “Chimera” di Fizzarotti con Morandi e la Efrikian, allora sposini da rotocalco (che nasceva comunque da un soggetto della Wermuller) ai più rimarchevoli “Brancaleone alle crociate” di Mario Monicelli, dove Lino recitava ‘a tutto tondo’ (ma con venature surreal-melanconiche) fra i ‘prodi guerrieri’ di un Vittorio Gassman nel pieno della sua arte istrionica. E, ancor meglio, nel sottostimato, onirico “Culastrisce, nobile veneziano” di Flavio Mogherini (piccolo gioiello di cinema improbabile, poetico, soffuso) in cui Toffolo tiene testa al mirabile, svampito protagonista Marcello Mastroianni, ‘decaduto’ di blasone ma non di rango artistico.
Seguirono anni di gustose partecipazioni a “Canzonissima”(sempre in ruoli di intrmezzi-scacciapensieri); e poi di affiatato cabaret in coppia con Paolo Villaggio, ma con rapporti interpersonali non facili, come sa qualunque attore abbia lavorato con il geniale, egocentrico, suscettibile ‘Genovese’. Di ritorno, quindi, al palcoscenico di prosa, con spettacoli ispirati a Godoni, Prokofief, Stravinkij (o commedie originali quali “Gelati caldi” e “Fisimat”), tutti inalati di verve musicale, favolistica, cautamente trasognata, suffragati dalla scelta di Gigi Proietti di averlo a fianco tra i protagonisti (televisivi) della buona fiction “L’ultimo papa re” del 2013.
Incapace di star fermo, fra cervello e creatività sempre in ebollizione, Lino Toffolo, con il terzo millennio, aveva avuto tempo, voglia (e fidati sponsor) per dedicarsi alla vecchia passione del documentario cinematografico “lucido, efficace, mai venato di sterile nostalgia”, firmando nel 2006 “Nuvole di vetro”, serio e solido film (da consigliare ai programmisti di Rai Storia) sull’arte vetraria di Murano (da non consegnare ai musei, possibilmente) e su certe fole e segreti della sua inveterata infanzia nell’isolotto ove Pinter (quand’era in Italia, alternandola a Burano) si ritirava spesso e di buon’ora a meditare sulle commedie da scrivere.
Altre fiction televisive di qualche successo furono, per Lino, “Tutti pazzi per Maria” e “Scusate il disturbo”.
Ma il suo congedo più pregnante, perchè commovente, lo diede (a 75 anni) su alcuni palcoscenici del nord est, non molti purtroppo, che lo videro interpretare (pare in misura umanamente schietta e ‘superba’) il ruolo di un ammalato di Alzheimer in “Lei, chi è?”. Quando passato, presente, futuro fanno un tutt’uno nello sgangherato frullatore della memoria in demolizione “e si scopre che la vita-scriveva l’interprete -è una tragicommedia di presunzione e ambizioni”. Da precoci, incattiviti dementi.