Ci lascia il cardinal Capovilla, colui che fu segretario particolare di Giovanni XXIII, e anche i laici, i non credenti o i credenti in altre religioni avvertono un senso di vuoto e di bellezza. Di vuoto, perché la sua assenza si farà sentire, proprio come abbiamo avvertito e amato a lungo la sua dolcezza, la sua mite fermezza nel rivendicare i valori cattolici più nobili, il suo sguardo lungo e globale, la sua umiltà e la sua discrezione. Di bellezza, perché sappiamo bene che Loris Francesco Capovilla, spentosi in un piccolo paesino del bergamasco alla rispettabile età di cento anni, non solo ha attraversato un secolo da protagonista ma si è ricongiunto con gioia a quel Padre celeste che abbracciò da ragazzo e al quale ha dedicato l’intera vita, con una passione, un fervore e un’autenticità oggi quasi sconosciute.
È stato un protagonista del Novecento, sì, ma non si è certo scelto questo ruolo: non era un tipo da telecamere, non c’era nulla di appariscente o di smodato in lui, al punto che sul finire degli anni Ottanta si era dimesso dagli incarichi pastorali ed era venuto a cercare riparo e conforto in un paesino di poche anime, lontano dal fragore assordante della notorietà e del prestigio che pure aveva conosciuto da vicino e col quale era venuto a contatto in anni importanti della sua formazione umana e spirituale.
Non a caso, quest’uomo raffinato, sobrio e ricco di sincerità è piaciuto fin da subito a papa Francesco, il quale, nel 2014, lo ha creato cardinale, come riconoscimento per il lungo servizio e per la dedizione alla nobile causa del sacerdozio e della predicazione pastorale.
Non a caso, pensando al cardinal Capovilla, non ci viene in mente solo ciò che ha fatto, ciò che ha rappresentato e ciò che incarna la sua figura ma, più che mai, ciò di cui avvertiremo la mancanza da adesso in poi.
Ci mancherà la sua schiettezza, ci mancherà la sua apertura mentale, ci mancherà l’infinita meraviglia che aveva dentro di sé e ci mancheranno, infine, i suoi gesti semplici ma colmi di umanità, come la scelta di festeggiare il suo centesimo compleanno insieme ai profughi ospitati a Sotto il Monte (paese natale di papa Roncalli, scelto apposta da Capovilla per trascorrere la parte finale della sua vita).
Un’esistenza spese per gli ultimi, nobilitata dagli ultimi e capace di condurre le ragioni dei più deboli fin dentro le stanze vaticane, al punto che il pontificato del “Papa buono” è ricordato come una delle più intense e innovative della millenaria storia della Chiesa. Ora riposa e a noi piace immaginarlo felice, sereno, in pace con se stesso, come del resto ha sempre vissuto; ci piace immaginare un uomo immerso nei suoi tanti ricordi e, grazie ad essi, sempre proteso verso il domani; ci piace pensare che anche lassù starà costruendo qualcosa, accogliendo gli oppressi, consolando lacrime e regalando sorrisi.
Ci piace rendere omaggio a quest’uomo perbene, antico e modernissimo al tempo stesso, come a uno dei grandi rivoluzionari silenziosi del secolo che si è concluso da tre lustri. E ascoltiamo questa distesa di silenzio che si perde fra i sussurri di un prete capace di esser grande, di toccare l’apice e di tornare a posare i suoi semplici occhi mortali sulle miserie del mondo.
In quel momento, comprendiamo a fondo la sua lezione e un po’ di quella bellezza entra anche in noi, insieme alla speranza di tornare a volare in questo tempo d’abbandono.