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Lino Toffolo: quando sapevamo ancora essere allegri

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Lino Toffolo, simbolo di un’Italia che purtroppo non c’è più. Lino Toffolo, cantautore, attore, cabarettista e artista poliedrico, disimpegnato e serissimo al tempo stesso, capace di interpretare al meglio lo spirito di una stagione ormai remota e della quale avvertiamo una struggente nostalgia. Lino Toffolo, veneziano di Murano, scomparso a 81 anni, era un tipo scanzonato come sapevano esserlo i vari Gaber e Jannacci, Cochi e Renato e altri istrioni di quegli anni Sessanta nei quali eravamo ancora capaci di ridere e di piangere, di sognare e di concederci uno svago, di emozionarci e di perderci in un attimo di incantata leggerezza.
Perché Toffolo e quelli come lui erano non solo dei grandi interpreti della canzone e dello spettacolo ma, più che mai, dei magnifici illusi, degli ingenui orgogliosi di esser tali, delle persone che vivevano in un mondo parallelo rispetto al mondo reale e, proprio per questo, lo capivano come e meglio degli altri, scrutandolo dal loro osservatorio privilegiato di protagonisti di un universo incontaminato dal quale i nostri vizi e le nostre incongruenze apparivano in tutta la loro ridicolaggine.
Ci si divertiva e si rifletteva, si trascorreva una serata in allegria e si pensava a lungo, si stava insieme e ci si sentiva parte di una comunità: questa era l’Italia di allora, l’Italia di Fo e della Rame, del primo Teocoli, di Morandi e degli straordinari registi della commedia all’italiana.
Si guardava al domani con meno preoccupazione, meno ansia, meno paura e meno disincanto rispetto ad oggi; ci si interrogava sul futuro con un minimo di sicurezza e con la certezza che, in qualche modo, ce l’avremmo comunque fatta; ci si prendeva per mano e la solidarietà prevaleva quasi sempre sulla barbarie. Non era una società ideale, tutt’altro, diffidate di chi vi racconta dell’esistenza di un El Dorado che non e mai esistito se non in qualche favola; tuttavia, è innegabile che fosse una società più giusta, con meno diseguaglianze, più onesta, meno diffidente, una società nella quale c’era spazio anche per un acchiappanuvole e per un cantore dell’allegria senza pretese, forse persino un po’ anarchico, se si pensa alla splendida interpretazione che regalò al pubblico televisivo di una canzone come “Addio a Lugano”.
Toffolo, Pisu, Profazio, Gaber e Jannacci: ma sì che erano anarchici, è innegabile! Liberi, spensierati, un po’ bohémien, talvolta provocatori ma mai volgari, sempre dotati di un garbo e di un’ironia che, nei decenni successivi, hanno ceduto il passo alla pesantezza squallida di battute che, oltre a non far ridere, ci rendono tutti peggiori.
Toffolo, in poche parole, ha rappresentato l’Italia migliore, capace di rinascere dalle macerie della guerra e fiera di se stessa e delle proprie conquiste democratiche, serena e combattiva, tenace ma al contempo in grado di regalarsi qualche istante di magica follia.
Un altro sorriso alla vita che se ne va, in una stagione nella quale troppi comici hanno sbagliato mestiere e troppi ciarlatani si credono divertenti.


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