Ogni tanto si incontra qualcuno che vorrebbe rimpastare la creazione dell’universo: ma insomma Dio che pasticcione, quante ne ha combinate! E poi tutta questa violenza, questa infelicità, ma che mondo è?! Solo un sadico poteva inventare tanto dolore, tanto orrore: almeno fossero stati risparmiati i bambini. Sono loro le vittime che più ci affliggono e che vorremmo preservare da ogni oltraggio: che ragione c’è di far soffrire un innocente, a che serve?
Avrebbe avuto motivo di domandarselo anche Patrick Modiano, la cui infanzia sembra scritta da Dickens tanto è penosa, da non crederci. Forse per affrancarsene ce la racconta egli stesso in un libricino pudico uscito nel Super Et dell’Einaudi e che probabilmente non sarebbe mai apparso se l’autore non fosse diventato nel 2014 Premio Nobel per la Letteratura, il più prestigioso riconoscimento sulla Terra. Chi già conosce la sua prosa dal fascino quasi ipnotico, sa bene come lo scrittore ‘racconti per assenze’; in uno dei suoi romanzi più avvincenti, “Via delle Botteghe Oscure” (1978), un detective smemorato cerca di riappropriarsi del proprio passato indagando su qualcuno che scoprirà alla fine essere se stesso. Una spirale dalla quale ci lasciamo volentieri inghiottire insieme al protagonista, che ci svela nella meticolosa ricerca una Parigi di mappe stradali, elenchi telefonici, e personaggi ripescati dagli schedari dell’Agenzia investigativa in cui il narratore è impiegato.
“Sono nato il 30 luglio 1945, a Boulogne-Billancourt, allée Marguerite II, da un ebreo e da una fiamminga che si erano conosciuti a Parigi durante l’Occupazione. Scrivo ebreo senza sapere cosa questa parola significasse veramente per mio padre e perché, a quel tempo, era indicata sulla carta di identità. I periodi di forte turbolenza provocano spesso incontri azzardati. Cosicché io non mi sono mai sentito figlio legittimo e ancora meno un erede”.
Così inizia questo resoconto personale di appena 81 pagine, indispensabile per comprendere meglio lo stile unico e inconfondibile del futuro scrittore. La madre (di cui ignoriamo il nome!) figlia di operai di Anversa, dopo l’occupazione tedesca del Belgio si trasferisce a Bruxelles cercando parti da attricetta dei teatri della città e sbarcando il lunario anche come girl in riviste di musical. “Era una ragazza graziosa dal cuore duro”. Il fidanzato del momento le aveva regalato un chow chow “ma lei non se ne occupava e lo affidava sempre ad altri, come più tardi farà con me. Il chow chow si è suicidato buttandosi dalla finestra”. La famiglia facoltosa del fidanzato distoglie il figlio da quel matrimonio inopportuno e lei, che vorrebbe trasferirsi a Berlino per tentare la strada del cinema, viene invece avviata da un giovane ufficiale tedesco nella Francia occupata (siamo nel ’42) presso la casa di produzione Continental. Si sottopone a qualche provino negli studi di Billancourt, lavora un po’ nel doppiaggio, diventa l’amica di uno degli assistenti del direttore Alfred Greven. A Parigi abita in una camera al n.15 di Quai de Conti nell’appartamento di una coppia di omosessuali in cui transitano visitatori eterogenei e sbandati, uomini e donne di ogni etnia. Una vicina di stanza le fa conoscere Arletty che la prende in simpatia. “Mi si perdonino tutti questi nomi e altri che seguiranno – scrive Modiano. – Sono un cane che fa finta di avere un pedigree. Mia madre e mio padre non provengono da nessun ambiente preciso. Così sballottati, così incerti che devo sforzarmi molto per trovare qualche traccia e qualche appiglio in queste sabbie mobili…” Il padre, nato nel 1912 a Parigi, proviene da un famiglia ebrea di Salonicco che approda in Italia prima di scompaginarsi in varie capitali del mondo. Si chiama Alberto, detto Aldo, e rimasto orfano a quattro anni, cresce abbandonato a se stesso durante l’adolescenza e la giovinezza. A diciotto anni traffica in carburante, raggira un direttore di banca, di lui si occupa la giustizia. Vivrà sempre di espedienti, fondando società fantasma, anche a Londra, nascondendosi per la maggior parte del tempo sotto falso nome, trafficando nel mercato nero. “Il 2 agosto del 1945 Albert va in bicicletta a dichiarare all’anagrafe la nascita di Patrick”. I Modiano abitano al quarto e quinto piano di Quai de Conte. Il padre non si vede mai, sempre in viaggio da qualche parte; la madre occupata in particine con le compagnie di giro, lascia i due figli dove capita, qualche volta ai nonni materni che si spostano da Anversa. “Un pomeriggio, all’uscita dalla scuola, nessuno viene a prendermi. Sto per rientrare da solo ma, nell’attraversare la strada, vengo investito da un camioncino. L’autista del camioncino mi porta dalle suore che, per farmi addormentare, mi mettono un batuffolo di etere sulla bocca. Da allora sarò particolarmente sensibile all’odore dell’etere”. Nell’appartamento di Quai de Conti Patrick e il fratello sentono la sera voci e risate nella camera vicina dove la madre riceveva i suoi amici di Saint-Germain-des-Prés. “La vedevo di rado. Non ricordo un solo gesto di vera tenerezza o di protezione da parte sua”. E così sarà per tutta l’adolescenza trascorsa nella solitudine e nella paura. Lo scrittore annota con una precisione da regesto notarile: “Prime letture: L’ultimo dei mohicani che non capisco ma che continuo a leggere fino alla fine. Il libro della jungla. Le fiabe di Andersen illustrate da Adrienne Ségur. Le storie del gatto sornione”. Sono libri che rimedia a scuola, oppure nelle case delle amiche a cui viene affidato per lunghi periodi. Più tardi lo attendono gelidi collegi, truci e inospitali: “Distribuzione di un pezzo di pane secco e di un quadretto di cioccolato nero alle 16. Polenta a cena. Muoio di fame. Ho le vertigini”. Oppure: “Il letto troppo piccolo. Le lenzuola che non vengono cambiate per mesi e che puzzano. Come gli abiti. Sveglia alle 6.15. Pulizia sommaria, con l’acqua fredda… Colazione. Caffè senza zucchero in una ciotola di metallo”. La domenica i compagni escono con i genitori, lui rimane unico prigioniero delle camerate. Dalla madre riceve qualche rara lettera dall’Andalusia. Il padre non va mai a trovarlo, non intende spendere soldi per lui e gli lesinerà ogni centesimo senza scrupolo alcuno. La situazione peggiora ulteriormente quando Albert si accompagnerà a una donna di venti anni più giovane “i capelli biondo stoppa e l’aspetto di una pseudo Mylène Demongeot”, e abbandonerà alla loro sorte i figli e la moglie, la quale del resto già vive altre storie e conduce un’esistenza disordinata. Sarà il figlio a cercare di provvedere alla sua incessante richiesta di soldi con le misere entrate di lavoretti di fortuna, costretto a mediare tra odi feroci e ottusi egoismi, senza mai ricevere dalla madre altro che risentimento e recriminazioni. Povero Modiano, saranno i libri a salvarlo, rivelandogli sempre più precisa la sua inclinazione a scrivere. “Purtroppo le letture sono sorvegliate. Nel 1962 sarò sospeso qualche giorno per aver letto Il grano in erba (di Colette). Grazie al mio professore di francese, l’Abate Accambray, otterrò il permesso speciale per leggere Madame Bovary, proibito agli altri studenti”. Rimane interno del collegio per sei anni di seguito e tra infinite traversie conseguirà ad Annecy il baccalauréat: “Sarà il mio unico diploma”.
Superfluo continuare, il libro si legge con un’inarrestabile corsa degli occhi cadenzata da tuffi al cuore. Ci chiediamo come il povero ragazzo sia riuscito a sopravvivere. Probabilmente grazie ai libri che hanno sviluppato una barriera immunitaria e assecondato la precoce insorgenza della sua vocazione. “Si cresce solo contro” mi disse una volta in un’intervista Cesare Musatti, sorridendo bonario, già molto anziano e molto simpatico. Credo che il padre della psicanalisi italiana avesse ragione più di quanto vorremmo ammettere, sempre tutti in cerca di una inafferrabile felicità a buon mercato. Ripenso a quella frase ogni volta che mi imbatto in storie di tristezza e dolore come questa di Patrick Modiano, che forse negli anni bui dell’infanzia mai avrebbe potuto immaginare di diventare un premio Nobel. Benché egli annoti in un passaggio del libro: “Io credevo al miracolo e mi perdevo in sogni balzacchiani di fortuna.”
Come vogliamo concludere quest’articolo? Così, con le parole dell’autore che nel 1966, prossimo ai 21 anni, volta le spalle a Parigi e parte per il Midi, sulla costa. Les Issambres. Sainte-Maxime: “Prendo in affitto una camera, nella piccola piazza di La Garde-Freinet. E’ lì che un pomeriggio, all’ombra del dehors di un caffè ristorante, ho iniziato il mio primo romanzo.”